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Vino italiano in crisi: dazi, calo dei consumi e rossi che non si bevono più, cosa sta succedendo

Il presidente della CIA Cristiano Fini analizza le criticità del settore vitivinicolo: calo dei consumi, rischio di dazi USA, cambiamento delle abitudini e giacenze di milioni di ettolitri. “Servono programmazione, promozione e strategie condivise per affrontare le sfide future”.
Intervista a Cristiano Fini
Presidente CIA - Agricoltori Italiani
A cura di Davide Falcioni
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Un calice di vino sorseggiato in una città d'arte o in un piccolo borgo medievale, in riva al mare o sullo sfondo di un paesaggio rigato dai vigneti: è una delle immagini più iconiche dell'Italia, eppure il settore vitivinicolo sta attraversando una fase molto delicata, forse una delle più complesse degli ultimi decenni. Dietro la patina luccicante dell'"italianità in bottiglia" si celano infatti tensioni che rischiano di lasciare il segno e minare migliaia di posti di lavoro.

Da una parte, la preoccupazione per un presunto surplus produttivo: 40 milioni di ettolitri di vino in giacenza, una cifra che ha fatto rapidamente il giro delle cronache, evocando l’idea di un settore ingolfato, incapace di vendere quanto produce. Dall’altra, un cambiamento profondo nei consumi: si beve meno vino, soprattutto rosso, e le abitudini dei consumatori – sempre più attenti alla salute e influenzati da normative più rigide sul consumo di alcol – si stanno trasformando rapidamente.

Ma non basta. Sulla filiera del vino pende una minaccia ancora più pesante e arriva dall’altra parte dell’Atlantico: la possibile introduzione dei dazi americani, già paventati da Donald Trump. Una prospettiva che, se dovesse concretizzarsi, potrebbe compromettere pesantemente uno dei principali mercati di sbocco del vino italiano, con conseguenze economiche e occupazionali disastrose, specie per le piccole e medie imprese, quelle con le spalle meno larghe, magari già minacciate anche dagli effetti della crisi climatica sull'agricoltura.

In questo scenario incerto abbiamo interpellato Cristiano Fini, presidente nazionale di CIA – Agricoltori Italiani, una delle maggiori organizzazioni di categoria in Italia e in Europa. Con il leader sindacale abbiamo fatto il punto sulla reale portata dei problemi, sulle risposte finora messe in campo e sulle prospettive future, con una sola certezza: nel breve termine niente come i dazi della Casa Bianca rischia di mandare all'aria i sacrifici di produttori e lavoratori. Per questo il governo ha un mandato chiaro: trattare ad oltranza per difendere un settore strategico che dà lavoro a migliaia di persone, dai campi alle cantine, dalla logistica al commercio.

Massimo Fini, presidente CIA
Massimo Fini, presidente CIA

Presidente Fini, si parla molto in questi mesi di una crisi del vino italiano, alimentata da dati preoccupanti: si parla di circa 40 milioni di ettolitri di vino in giacenza. Ci conferma questo dato? Ed è davvero così allarmante?

In realtà vorrei subito fare una precisazione importante. I 40 milioni di ettolitri in giacenza sono un dato che si ripresenta praticamente ogni anno. Fa parte della fisiologia del nostro comparto. Quando inizia una nuova campagna vendemmiale, non si parte mai da zero: abbiamo sempre una quota di prodotto già in cantina che serve per affrontare i mesi prima dell’uscita del vino nuovo, che non è disponibile da un giorno all’altro. Per questo, quei numeri non devono allarmare: sono in linea con gli anni precedenti. Il problema, semmai, è altrove.

E qual è?

I segnali più preoccupanti arrivano dai cambiamenti strutturali nel mercato: il calo e la trasformazione dei consumi. Stiamo assistendo a una contrazione del consumo di vino, spinta da diversi fattori. Penso alle restrizioni sul consumo di alcol per chi guida, al crescente orientamento salutista dei consumatori, ai cambiamenti nelle abitudini quotidiane. Ma anche alla modifica della domanda: il vino rosso è in netto calo, mentre bianchi e spumanti tengono meglio. Questo cambiamento va capito e affrontato.

Quindi, da un lato meno vino consumato, dall’altro anche uno spostamento di preferenze da parte del consumatore?

Esattamente. Non si tratta solo di una riduzione quantitativa, ma anche qualitativa. I gusti cambiano, e con essi anche i mercati. È una dinamica che richiede una risposta strategica.

In questo scenario entra un ulteriore fattore di incertezza: i dazi. Quanto potrebbero pesare?

Moltissimo. Oggi si parla con insistenza di possibili nuovi dazi con gli Stati Uniti, uno dei nostri mercati più rilevanti. Anche un dazio del 10% avrebbe un impatto significativo: per le grandi aziende è un fastidio, per le piccole e medie imprese può essere un ostacolo difficilissimo da superare. Un dazio del 20% o 30% sarebbe un disastro. Vorrebbe dire lavorare in perdita, perdere competitività e subire un crollo dell’export.

Un dazio del 10% però, diceva, si può forse assorbire?

Fino a un certo punto. È sostenibile solo perché significa rinunciare alla marginalità. Nessuno può permettersi di assorbire per lungo tempo un dazio senza intaccare i conti aziendali. Al 10% magari si regge. Al 20-30%, semplicemente, non si lavora più. E a pagare sarebbero soprattutto le aziende più fragili, quelle che non hanno le spalle larghe per diversificare mercati o ammortizzare l’urto.

Il consumatore americano come reagirebbe a un aumento di prezzo dovuto ai dazi?

Con una scelta molto chiara: smettere di comprare. Il mercato USA è altamente competitivo. Se il vino italiano diventa più caro, il consumatore passa ad altro, magari a un prodotto locale o di un altro Paese che non subisce dazi. A quel punto l’esportazione cala, e con essa anche la produzione e l’occupazione nel nostro settore.

A proposito di occupazione: qual è l’impatto potenziale, se i dazi davvero entrassero in vigore?

Fare una stima oggi è difficile, perché non abbiamo certezze sull’entità delle misure. Ma è chiaro che se l’export rallenta, le aziende si trovano costrette a rivedere i volumi, con inevitabili conseguenze sui posti di lavoro. Il vino dà occupazione lungo tutta la filiera, dalla campagna alla cantina, fino alla logistica e alla commercializzazione. L’impatto sarebbe forte, soprattutto se i dazi si traducessero in una contrazione strutturale delle vendite. Per questo pretendiamo che la politica tratti a oltranza: l'introduzioni dei dazi da parte di Trump sarebbe comunque una batosta per chi lavora nel comparto vitivinicolo, ma c'è differenza tra dazi al 10% e dazi al 30%.

C’è un altro fronte che agita il mondo del vino: le campagne contro il consumo di alcol. Il settore agricolo è pronto ad affrontare questa nuova sensibilità sociale?

Il settore è sicuramente pronto dal punto di vista della qualità del prodotto, della promozione e della capacità di stare sul mercato. Dove invece siamo ancora indietro è nella programmazione. C’è bisogno di una visione strategica che ci aiuti a interpretare e anticipare i cambiamenti dei consumi. Non possiamo più limitarci a reagire, dobbiamo cominciare a pianificare.

Di fronte a una possibile crisi del settore c’è chi propone soluzioni drastiche: espianti, distillazioni d'emergenza. Possono essere strumenti utili?

In questo momento credo sia prematuro parlare di misure così drastiche. La vera fotografia della situazione l’avremo a fine anno, solo allora potremo valutare se intervenire e come. Certamente dobbiamo iniziare a ragionare già adesso su possibili contromisure, per non arrivare impreparati. Penso a misure tampone, come il blocco delle autorizzazioni o distillazioni mirate su alcune denominazioni, ma anche a interventi strutturali se il problema si confermasse profondo e duraturo.

Il ministro dell’agricoltura Lollobrigida
Il ministro dell’agricoltura Lollobrigida

Veniamo alla politica. Il Governo e il ministro Lollobrigida stanno facendo abbastanza per i viticoltori?

Il Ministro Lollobrigida ha sempre mostrato grande attenzione al comparto vitivinicolo, sia a livello nazionale che europeo. Ha difeso il vino come prodotto agricolo centrale e ha sostenuto l’idea di un consumo consapevole e moderato. È un buon punto di partenza. Poi, se la situazione dovesse peggiorare, toccherà anche al Ministero compiere delle scelte concrete, valutando assieme al mondo agricolo le misure più adatte.

Che tipo di misure potrebbe mettere in campo il Governo per tutelare il comparto in caso di crisi?

Ci sono vari strumenti possibili. La cassa integrazione, per far fronte all’impatto occupazionale, è certamente uno. Ma è altrettanto importante sostenere la promozione e l’internazionalizzazione. Se un mercato come quello americano si chiude o diventa meno accessibile, dobbiamo avere risorse per puntare su altri sbocchi commerciali. La promozione può fare la differenza, e lì serve l’aiuto pubblico.

Ci sono mercati esteri su cui il settore potrebbe puntare per compensare un calo in USA?

Direi che il vino italiano è già molto presente in tanti mercati. Detto questo, ci sono aree che offrono ancora grandi margini di crescita: il mercato asiatico, l’India, la Cina, certi altri Paesi dell’Est. Sono bacini importanti, ma non possiamo permetterci di trascurare nessun mercato. Dobbiamo puntare sulla qualità e sulla capacità di raccontare il nostro prodotto ovunque, senza porci limiti.

In sintesi, presidente, qual è il messaggio che vuole lanciare al settore in questo momento?

Serve un approccio responsabile e strategico. Non siamo ancora in crisi nera, ma i segnali sono chiari: calo dei consumi, rischio dazi, cambiamento delle abitudini. Serve un piano. E bisogna costruirlo insieme: istituzioni, mondo agricolo e imprese. Nessuno può permettersi di restare a guardare. Se ci muoviamo adesso, possiamo ancora invertire la rotta. Se aspettiamo, rischiamo di arrivare tardi.

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