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Cambiamenti climatici

Unire il mondo contro il cambiamento climatico: serve una federazione di Stati

Se nel 1945 la grande minaccia alla distruzione di massa era di una guerra atomica, oggi quella climatica risulta molto più probabile (e devastante). La necessità di unire il mondo non è mai stata tanto impellente.
A cura di Fabio Deotto
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Nel settembre del 1945 alcuni tra i fisici più famosi del pianeta parteciparono a una conferenza organizzata all’Università di Chicago con un proposito a dir poco ambizioso: capire che tipo di misure fossero necessarie per impedire che la specie umana venisse annientata per colpa di un conflitto atomico. Tra questi c’era Leo Szilard, che proprio a Chicago nel 1942 aveva ottenuto, insieme a Fermi, la prima reazione nucleare della Storia. Szilard si era già opposto vivamente al bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, ora era determinato a far sì che qualcosa di simile non potesse più verificarsi: affermò che l’unico modo per averne la certezza fosse stabilire un controllo internazionale di tutta l’energia atomica, ossia istituire una forma di governo mondiale in cui tutte le potenze nucleari fossero in un rapporto di interdipendenza.

Una prospettiva che all’epoca poteva suonare utopistica, tanto che Szilard ipotizzò, con una certa rassegnazione, che non potesse verificarsi se non in seguito a una Terza Guerra Mondiale. Ma a giudicare da come la crisi climatica si sta evolvendo, e dalle ricadute che già oggi colpiscono il pianeta in maniera trasversale, questa prospettiva potrebbe avverarsi in tempi più brevi.

Un problema globale richiede (anche) soluzioni globali

Ogni anno, gli esponenti di quasi 200 nazioni si radunano per due settimane a discutere di come coordinarsi per decarbonizzare l’economia mondiale, pianificare un adattamento alle ricadute del riscaldamento globale e risarcire i paesi più colpiti da un problema creato da poche nazioni economicamente predominanti; ogni anno i lavori si concludono senza un accordo vincolante significativo.

Le COP sono piene di difetti, ma sono al momento lo strumento intergovernativo più promettente di cui disponiamo. Il problema è che la sua efficacia è minata dagli interessi dei singoli stati (e delle lobby fossili), oltre che dai cambi di governo che possono portare alcuni paesi a ritirare il proprio impegno o a non onorarlo.

Il punto è che, come spesso si dice, il clima ignora qualunque confine: la CO2 prodotta in qualsiasi punto del mondo va a contribuire a un fenomeno globale, i cui effetti tuttavia non sono distribuiti equamente. Al momento, per dire, le nazioni più danneggiate dalle ricadute della crisi climatica sono proprio quelle che meno hanno contribuito alla sua insorgenza.

La lista di problematiche globali che la crisi climatica sta innescando, e che non potranno essere risolte dall’iniziativa dei singoli stati, è sempre più corposa: l’aumento delle temperature sta influendo sull’agricoltura globale, sta rendendo invivibili luoghi che sono abitati da secoli, la fascia di abitabilità di questo pianeta si sta spostando e questo si tradurrà inevitabilmente in un aumento ingente dei flussi migratori.

Di fronte a una situazione simile, la prospettiva di un organo politico sovranazionale che possa coordinare una risposta efficace sembra quella più auspicabile. Ma prima di capire se sia o meno realizzabile, vediamo quali rischi potrebbe comportare.

Un Leviatano climatico

Nel saggio Il nuovo Leviatano. Filosofia politica del cambiamento climatico, Geoff Mann e Joel Wainwright mettono in guardia dalla possibilità che, la spinta verso una forma di stato mondiale possa portare all’instaurazione di un governo autoritario planetario che imporrà misure illiberali usando la crisi climatica come giustificazione. Secondo i due studiosi americani questo governo autoritario potrebbe assumere varie incarnazioni, di cui la più probabile sarebbe quella – parafrasando Thomas Hobbes – di un Leviatano Climatico.

Secondo questa idea la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) potrebbe venire dirottata da quanti oggi hanno interesse a ritardare l’azione climatica, per diventare la base per una forma di autorità globale che, privilegiando l’adattamento alla mitigazione, istituirà uno stato d’emergenza permanente.

In questa prospettiva il capitalismo verrebbe presentato come soluzione, invece che come causa della crisi climatica, i centri di potere economico attuali verrebbero rinnovati e la loro tenuta verrebbe garantita da governo che “sfrutti gli strumenti democratici per giustificare misure antidemocratiche.”

Già in passato c’era stato chi, come il chimico James Lovelock, aveva suggerito che per affrontare l’antropocene sarebbe stato necessario sospendere la democrazia, istituire una sorta di Stato Mondiale che potesse governare e prescrivere misure capaci di imporre una trasformazione economica ed produttiva.

È una prospettiva meno peregrina di quanto potrebbe sembrare, e di sicuro c’è già oggi chi non vede l’ora di approfittare della questione per instaurare uno stato d’eccezione. Ma non è detto che debba andare così, come non è detto che una forma di governo globale debba necessariamente ricalcare il modello dello stato-nazione

Una federazione per la governance mondiale

Siamo abituati a ragionare per dicotomie, perciò ci viene abbastanza naturale immaginare che, se la prospettiva di un governo mondiale unitario si rivelasse impossibile da realizzare, o presentasse troppi rischi, l’alternativa sia necessariamente un mondo calcificato in stati-nazione separati. Ma c’è chi propone una terza via, che sarebbe quella di una progressiva federalizzazione del mondo.

Nel saggio Oltre gli stati, lo storico e politologo Anthony Padgen ripercorre la storia dei tentativi di governance mondiale, a partire dalla Società delle Nazioni del 1919 fino all’esperimento delle Nazioni Unite, cominciato nel 1945 e ancora oggi incapace di costituirsi in un corpo giuridico inaggirabile. Secondo Padgen l’esperimento di internazionalizzazione più riuscito sarebbe in realtà quello dell’Unione Europea, che è molto più vicina a una federazione di nazioni e ha maggiori chance di ottenere risultati concreti nel breve termine.

A differenza di chi prospetta un governo mondiale che vada a sfumare i confini tra le nazioni, l’ipotesi di Padgen è che si possa confederare il pianeta, prospettando una “federazione di federazioni”, ossia una cooperazione tra federazioni minori di stati: l’UE, una federazione indiana, una africana, una sino-asiatica, etc. Questa federazione di federazioni non andrebbe a compromettere la politica interna delle singole nazioni, ma interverrebbe a coordinare quella estera e a deliberare sulle problematiche di tipo globale, come appunto quelle riguardanti il clima.

Una prospettiva meno lontana di quanto sembri

Più che istituire un governo globale governato da un unico parlamento, dunque, l’idea sarebbe di conferire potere legislativo ed esecutivo su alcune materie a organismi sovranazionali di nuova concezione o già in essere.

C’è chi, come Will Steffen, Johan Rockström e Robert Costanza, propone di istituire un “planet boundaries referee”, ossia un’autorità che vigili sul rispetto dei limiti planetari: un esempio è l’Earth Atmospheric Trust, che idealmente tratterà l’atmosfera come un bene comune globale, da gestire e preservare congiuntamente.

Ma a ben vedere esistono già strutture che nascono con lo specifico proposito di gestire la problematica in maniera intergovernativa, una su tutte la sopracitata UNFCCC, che ogni anno chiama allo stesso tavolo quasi duecento nazioni nel tentativo di ottenere un accordo vincolante che consenta di stabilire paletti chiari per uscire dalla situazione emergenziale in cui ci troviamo.

Di fronte alla possibilità di conferire maggiori poteri a istituzioni di questo tipo, sia tra i sovranisti che tra gli anti-globalisti, c’è chi si batte puntualmente il petto paventando la prospettiva di un’ingerenza sovrastatale sui singoli stati, che andrebbe a interferire con l’autonomia delle singole nazioni e persino con il principio di autodeterminazione dei popoli. Ma come fa notare Roberto De Vogli, professore associato al Dipartimento di Psicologia Sociale e Sviluppo dell’Università di Padova, “i capi del mondo ci sono già. E la maggior parte delle decisioni politiche del mondo, come abbiamo visto nel caso della Grecia, sono di tipo economico e finanziario. […] Lo status quo non è una situazione di democrazia, ma di quasi-oligarchia, in cui ci sono poche multinazionali che dominano i mercati.”

Quando Szilard e colleghi si sedettero a discutere di governo mondiale nel 1945 la grande minaccia era la distruzione di massa per colpa di un conflitto atomico. Oggi, nonostante l’escalation in Ucraina, stando al Global Risk Report del World Economic Forum, la minaccia climatica risulta sia molto più probabile, sia più devastante di un ipotetico conflitto atomico globale. La necessità di unire il mondo non è mai stata tanto impellente.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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