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“Per amore del mio popolo”, il ricordo di Don Peppe Diana

Era il 19 marzo del 1994, quando veniva assassinato nella sagrestia della sua Chiesa Don Giuseppe Diana, simbolo dell’impegno e della lotta contro le mafie in quella terra amara in cui nacque e morì, Casal di Principe.
A cura di Nadia Vitali
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Era il 19 marzo di diciotto anni fa, quando veniva assassinato nella sagrestia della sua Chiesa Don Giuseppe Diana, simbolo dell'impegno e della lotta contro le mafie in quella terra amara in cui nacque e morì, Casal di Principe.

Nel 1994 di quanto accadeva in terra di Gomorra si sapeva poco o niente; le notizie provenienti dal casertano occupavano una rilevanza secondaria rispetto alle colonne dei giornali, lo «stato assente» di oggi, lo era ancor di più allora, quando i media lasciavano passare sotto silenzio eventi dall'importanza storica quale fu il Processo Spartacus, e in troppo pochi sapevano cosa fossero Casal di Principe, l'agro aversano e quelle che erano le dinamiche economiche e sociali di tutta l'area. Lo sapeva bene Don Peppe Diana che aveva scelto, però, di non tacere ma di portare il proprio messaggio non meramente evangelico ma anche di impegno civile e di solidarietà, a tutta la cittadinanza della sventurata terra in cui era nato: dando inizio a quella che negli anni a venire avrebbe preso il nome di «battaglia per la legalità», diventando quasi una sorta di programma educativo da affiancare nelle scuole alla matematica e alla grammatica. Rinunciando a rifugiarsi dietro la paura, la più grave delle giustificazioni presentata da chi non vuole assumersi la responsabilità del proprio colpevole silenzio di fronte all'ingiustizia, al crimine, alla violenza, all'assassinio.

«Per amore del mio popolo non tacerò» era il titolo di una lettera che, nel Natale del 1991, Don Peppe Diana volle diffondere in tutte le parrocchie appartenenti alla medesima foranìa di Casal di Principe: il lucido ed accorato scritto di un uomo e di un prete seriamente preoccupato per la crescita esponenziale di violenza in tutta l'area, con un abbandono quasi totale delle istituzioni che si traduceva in emarginazione, povertà e degrado morale. Anni dopo, quando tutti avrebbero conosciuto cosa significava la parola «casalese», quando per ciascuno Sandokan sarebbe diventato il soprannome con cui indicare uno dei più feroci criminali mai venuti al mondo, quando le pagine di Roberto Saviano sarebbero state lette e tradotte in quasi ogni angolo del pianeta (dedicato a Don Peppe Diana un capitolo di Gomorra), le parole del parroco della piccola parrocchia di San Nicola di Bari sarebbero sembrate ancor più immense, potenti e dense di coraggio. Ma lo erano anche allora, nel silenzio assordante che circondava la camorra di Casal di Principe, al punto che si scelse di zittirlo per sempre, nel giorno in cui ricorreva il suo onomastico: era il 19 marzo del 1994 e Don Peppino si accingeva a celebrare la messa delle 7 e 30 quando il killer entrò nella sacrestia e lo colpì con diverse pallottole che lo uccisero all'istante. L'Italia si svegliò poco dopo scoprendo che esistevano uomini soli che non si sottraevano di fronte alla lotta contro quello che è il «male assoluto»; e che erano abbandonati a loro stessi.

Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni di camorra. […] La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica della realtà campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario; traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato. […] È ormai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l'infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L'inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l'inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che anche la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale  […] forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di esempi, di testimonianze per essere credibili.

Era il 19 marzo del 1994, quando veniva assassinato nella sagrestia della sua Chiesa Don Giuseppe Diana, simbolo dell'impegno e della lotta contro le mafie in quella terra amara in cui nacque e morì, Casal di Principe.
La folla di Casal di Principe stretta attorno al suo parroco per l'ultimo saluto

«Sventurata la terra che ha bisogno d'eroi»: suo malgrado, l'uomo che voleva solo compiere «il ministero di Pietro» nel migliore dei modi possibili, cercando di creare una collettività solidale in grado di opporsi alla violenza, alla brutalità e ai soprusi, sarebbe diventato uno dei troppi simboli di quanti cercano di ribellarsi alle imposizioni della camorra. Un eroe che oggi sarà ricordato in tutta la Campania con manifestazioni e mobilitazioni, nella speranza che il suo sudore e il suo sangue non siano stati versati invano e che tra quei «nuova modelli» ci siano proprio coloro i quali, come Don Peppe Diana, «per amore» non hanno avuto paura di parlare e di andare incontro al «sacrificio» e al martirio che, in ogni tempo, è servito agli uomini per comprendere e vedere quale è la strada giusta da seguire. Augurandosi che non ci si dimentichi di condannare apertamente e senza riserve quegli intrecci tra potere istituzionale e criminalità organizzata che, già vent'anni fa, quel sacerdote aveva visto, conosciuto e denunciato senza timore.

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