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Migranti e ‘ndrangheta, il pentito del Cara di Isola Capo Rizzuto: “Sacco è figlio del prete”

C’è un pentito che spaventa la ‘Ndrangheta e i suoi colletti bianchi, da anni, e che negli ultimi mesi ha deciso di alzare il tiro: un collaboratore di giustizia che molte Procure ritengono “prezioso” perché non si tratta di un semplice affiliato arresosi per guadagno o per paura ma un vero e proprio “capo”. Francesco Oliverio.
A cura di Giulio Cavalli
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Don Edoardo Scordio, parroco di Isola Capo Rizzuto, e Leonardo Sacco, governatore della Misericordia, sono le figure chiavi della recente operazione "Jhonny" che ha portato a numerosi arresti in relazione alla gestione del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto. Sarebbero loro, secondo gli investigatori, gli elementi chiave di un sistema di corruzione che avrebbe drenato soldi pubblici a favore della cosca Arena. Ma Leonardo Sacco, secondo un pentito, sarebbe anche il figlio naturale del prete: "padre biologico", si legge nei verbali. In giro si diceva che don Scordio "avesse cresciuto Sacco" ma "Pasquale Riillo, in relazione a questa persona, mi diceva che non era vero quanto si diceva in giro e cioè che era persona che il prete aveva cresciuto, ma diceva che era effettivamente figlio del parroco di Isola”. A parlare degli interessi della ‘ndrangheta sul centro di Isola Capo Rizzuto è stato Francesco Oliverio, ex boss di ‘ndrangheta ora collaboratore di giustizia, che su Isola Capo Rizzuto ha cominciato a parlare con i magistrati fin dal 2012. La sua è una storia che merita di essere raccontata.

Oliverio è un pentito che spaventa la ‘Ndrangheta e i suoi colletti bianchi, da anni, e che negli ultimi mesi ha deciso di alzare il tiro: un collaboratore di giustizia che molte Procure ritengono “prezioso” perché non si tratta di un semplice affiliato arresosi per guadagno o per paura ma un vero e proprio “capo” (guidava la locale di Belvedere Spinello con il grado di trequartino) che si è occupato di riattivare, tra gli altri, anche i circuiti mafiosi di Rho e dell’hinterland milanese.
Si chiama Francesco Oliverio, è nato a Belvedere Spinello (Crotone) il 7 giugno 1970 ed è collaboratore di giustizia dal 26 gennaio 2012 quando per «una crisi di coscienza e per il bene dei suoi quattro figli» ha deciso di collaborare con la giustizia. Ma solo negli ultimi mesi, dopo avere parlato di traffici di droga, avere riconosciuto le facce e i nomi, dopo avere raccontato per filo e per segno i riti di iniziazione ora ha cominciato a parlare del cosiddetto “corpo riservato” della ‘ndrangheta: quella zona d’ombra dove la criminalità e la massoneria stringono patti con pezzi di potere della politica e dell’imprenditoria.

Ma andiamo con ordine. La storia di Oliverio è tutta nel verbale d’udienza del 17 novembre del 2015 quando il collaboratore depone per il processo “Donato Vincenzo + altri” in riferimento alla ‘ndrangheta in Piemonte e in particolare sulla ‘ndrina di San Mauro Marchesato: Oliverio racconta della propria famiglia (già mafiosa) e della morte del padre Antonio Vincenzo in un agguato nel 1988 e di un’infanzia che era già segnata: “Nel 1982, 1983 (mio padre ndr) ha ricevuto un primo agguato in cui è rimasto ferito. In seguito ci sono stati altri atti omicidiari, ferimenti, attentati in genere. […] Poi praticamente li arrestarono, arrestarono mio padre e mio fratello maggiore Luigi, mio zio Armando Marrazzo, Vincenzo Marrazzo mio cugino. Li portarono a Reggio Calabria e da lì ho cominciato a quell'età, a 12, 13 anni a detenere le armi come armiere”. Una famiglia mafiosa sia da parte di padre che per radici materne (“Anche i familiari di sua mamma appartenevano alla ndrangheta?” chiede il Pubblico Ministero Sparagna: “Sì, i fratelli sì. La famiglia era questa, erano i cognati di mio padre… uno è cognato pure degli Iona”).

Nel 1990 Oliverio comincia a frequentare Milano (“…facevo avanti e indietro. Anche lì c'erano dei paesani, essendo che c'era una guerra”) trasferendosi a Rho e nel 2004 gli viene chiesto di “riattivare il locale di Rho”: “Che quelli degli Arena essendo che c’erano le condizioni di lavoro della fiera e con la prospettiva dell’Expo, decisero di… praticamente volevano che io riattivassi il locale di Rho e diventare capo locale, ma siccome c’erano degli uomini di onore, chiamiamoli così, diciamo così, ndranghetisti che attivavano nel locale di Bollate e quello di Legnano dove a capo c’era Vincenzo Rispoli, quello di Bollate era un certo Vincenzo, adesso non mi ricordo il cognome, comunque era di Guardavalle, allora Vincenzo Rispoli che sarebbe il nipote di Silvio Farao e Peppe Farao mi disse… (parole inintelligibili)… quelli che abitano a Rho, di cui c’era un certo Sanfilippo Stefano, ce n’erano parecchi e rientrate tutti insieme”.

Nell’hinterland milanese la cosca si occupa di droga, estorsioni e armi con una precisa ridistribuzione dei guadagni e soprattuto si occupa della “gestione del territorio”. Qualche settimana fa, in occasione di una deposizione durante il processo Aemilia, fu proprio Oliverio a raccontare l’atto intimidatorio contro il campo Rom di Cornaredo: ““Con i kalashnikov siamo entrati nell’accampamento degli zingari. Il Comune di Cornaredo non riusciva a sfrattarli e noi li abbiamo cacciati in una notte. – racconta il pentito – Perché c’erano delle donne che andavano a rubare ai vecchietti e noi questa cosa non la sopportavamo. Glielo abbiamo detto una, due, tre volte. Poi gli abbiamo messo una stecca di dinamite sotto una roulotte disabitata, l’abbiamo fatta saltare e il mattino dopo non c’era più nessuno. Perché la ‘ndrangheta con il popolo ci sa fare. Con il consenso ci sa fare e questo torna utile al momento delle elezioni”.

Eccola la mafia al nord, quella che da queste parti tutti fingono di non vedere eppure torna utile addirittura per mantenere basso l’allarme sociale. E non è un caso che nelle scorse settimane le parole di Oliverio siano diventate un vero e proprio caso politico: il quadro di collusioni che esce dalle parole del pentito coinvolge politica e forze dell’ordine. “I miei camion — ha dichiarato — non li hanno mai fermati. Viaggiavano in centro, considerando che da lì non avrebbero potuto passare. Noi davamo la lista con le targhe per avere i permessi e non li fermavano. Perché i vigili “mangiavano”. Non solo i vigili. Anche polizia e carabinieri. Noi avevamo anche un commissario a Crotone.“

Sempre grazie a Oliverio (siamo alla fine del 2016) la geografia degli interessi in Lombardia assume contorni sempre più precisi: tra le carte dell’inchiesta “Six Towns” che il 18 ottobre ha portato all’arresto di 36 persone ritenute vicine alla cosca Marrazzo di Belvedere di Spinello (Crotone) il Gip scrive che ““Oliverio Francesco riferisce che gli è stato proposto dagli Arena, dal momento che aveva le cariche e le doti di ‘ndrangheta sufficienti, di attivare un locale unitamente ad alcuni maggiorenti del Locale di Legnano (sempre in provincia di Milano, ndr). Oliverio Francesco – continua il gip – non gradendo il personaggio che gli era stato proposto come socio, Sanfilippo Stefano, ha declinato l’invito adducendo a scusante l’impegno di risolvere problematiche nella sua terra d’origine”. Una decisione, si legge ancora nelle carte, “pacificamente accolta da Sanfilippo Stefano che ha attivato, come ‘capo’, il Locale di Rho, ed ha accolto di buon grado di convivere sullo stesso con la ‘ndrina distaccata di Belvedere di Spinello” che, si legge, “riservava per sé la prelazione sul movimento terra, sul racket estorsivo in pregiudizio dei venditori ambulanti di panini in zona San Siro e sullo spaccio al minuto di sostanze stupefacenti”. E proprio sul commercio di panini nei dintorni dello stadio di San Siro a Milano Olverio, rispondendo alle domande del PM Curcio, dice: “Noi del crotonese ci raccogliamo tra noi… però noi siamo a Rho a disposizione del locale però vi faccio presente che a me mi interessa il movimento terra, l’edilizia ed il movimento terra ed il commercio di… di… quello dei camion dei panini che mettono a San Siro queste cose qua ed attività commerciali di cui mi rispose… il capo locale di Rho mi rispose: quello che fai tu è ben fatto, noi sappiamo chi sei…”.

Ma è un altro il punto su cui Oliverio ha fatto tremare le gambe ai mafiosi ma soprattutto ai potenti: di fronte al magistrato genovese Giovanni Arena, dopo avere “mappato” la presenza di ‘ndrangheta in Liguria, Oliverio lancia un messaggio chiaro. «Prima di chiudere – dice il pentito -vorrei precisare che lei dr Arena è a rischio. La ‘ndrangheta quando vi saranno delle sentenze o delle confische di beni gliela farà pagare. Non aspettate che succeda perché poi sarà tardi. Non necessariamente agiscono con criminali ma il più delle volte tramite persone insospettabili che vengono definite “corpo riservato” e di cui parlerò in seguito. Da non sottovalutare poi i collegamenti con servizi segreti e la massoneria. Di tali collegamenti ho avuto notizie da mio cugino …attivo nel locale di Belvedere Spinello con la carica di santa appartenente ad una loggia massonica di Vibo Valenzia». Il pm chiede di specificare: «Non ho avuto notizie concrete nei suoi confronti. – aggiunge Oliverio – Parlo per esperienza. Ho fatto quel mestiere per 30 anni so come ragionano». Sono le 19.30. Il verbale e la registrazione vengono interrotte e il seguito finisce tra gli omissis e le carte secretate.

E qui inizia l’altra storia, di Francesco Oliverio. Dopo quelle dichiarazioni (siamo alla fine del 2013) il collaboratore di giustizia definito “prezioso” comincia a scottare e intorno a lui accadono una serie di situazioni che meritano di essere messe in fila: il 22 luglio del 2015 Oliverio finisce inspiegabilmente nella Casa Lavoro di Castelfranco Emilia per un residuo di pena che risale a un periodo precedente della sua collaborazione. Lì a Castelfranco Emilia ci sono, detenuti, molti uomini vicini a quegli stessi clan che il pentito ha messo nei guai con le sue confessioni ai magistrati. Il direttore dell’istituto scrive a tutti: «presso le case di lavoro non è istituito un circuito per soggetti che rivestono la posizione processuale di collaboratore di giustizia», sottolinea preoccupato per l’incolumità fisica di Oliverio. Lui intanto si era autoimposto un regime di isolamento per evitare contatti con gli altri detenuti. Tre mesi in cui le udienze per la sua scarcerazione sono state inspiegabilmente rinviate: solo il 13 novembre il Tribunale di sorveglianza di Modena ha preso atto della situazione chiedendone la scarcerazione.

Ma non è tutto: da tre anni Oliverio non riesce a avere rapporti con suo figlio Samuele, nato da una relazione extraconiugale con una donna che seppur “sotto protezione” è ancora in stretto contatto con i famigliari del pentito e con tutti gli uomini del clan. E non può non lasciare perplessi la decisione nel 2015 di spostare il collaboratore in una località protetta in realtà molto “accessibile” ai clan: fu il suocero Jiaconis a raccontare alla moglie di Oliverio che le famiglie mafiose avevano ordinato di smettere di fare i nomi altrimenti si sarebbero vendicati con i figli, «dal più piccolo al più grande».

Quelle parole sul “corpo riservato” della ‘ndrangheta, dove mafia e politica e imprenditoria si incontrano sotto l’ala protettrice della massoneria, sembrano avere irritato qualcuno che dovrebbe essere dall’altra parte della barricata. E le novità giudiziarie potrebbero arrivare a breve.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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