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Mi chiamo Alexandra e sono stata abusata da mio zio: vi racconto il mio calvario per la Giustizia

Alexandra è una giovanissima donna vittima di abusi sessuali in famiglia. Ha scritto una lettera a Fanpage.it per raccontare il suo calvario. Dalla prima volta in cui suo zio acquisito la sfiorò sotto la maglietta, al processo durato sette anni, dove spesso si è sentita l’unica sotto accusa, Alexandra ci racconta come si riesce ad amare se stesse e riprendersi la propria vita dopo l’orrore.
A cura di Redazione
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Mi chiamo Alexandra. Da bambina odiavo la “x” nel mio nome, mi presentavo a tutti come “Alessandra”. Mi ci è voluta qualche fase di vita per capire che alcune diversità sono in realtà particolari che ci rendono più unici che rari, proprio come la mia x.  Sono nata il 30 gennaio in una gelida mattina di un piccolo paesino dell’Est. Mia mamma era giovane e bellissima, questo non è mai cambiato; mio “papà” non so se fosse affascinante o di che colore avesse gli occhi. So che non c’è stato quella mattina come nella mia vita e so di come maltrattasse mia madre e, per questo, non ho mai voluto saperne di più. Mia mamma, ai miei 3 anni e ai suoi 20, decise di portarmi Italia per salvarmi. Con l’Italia fu amore a prima vista e mia mamma conobbe un bel ragazzo comasco. S’innamorò di lui e mi diede un padre, che a sua volta mi diede una famiglia. Il nonno era un uomo baffuto, fissato con gli insetti, di quelli che quando un’ape ti si poggia addosso esclama “non ti muovere, ha più paura lei di te”; la nonna era una donna altezzosa, credo che lei mi vedesse come un obbligo e per questo non perdeva occasione per demoralizzarmi con un cattivo giudizio. Mia zia era lo specchio crepato di sua madre. Quel viscido del compagno di lei era moro e stempiato, denti usurati dal fumo e un guardaroba pacchiano.

Partecipai ad alcuni concorsi di bellezza che vinsi guadagnandomi una crociera. La sera del mio rientro dal viaggio, dopo i saluti, mi precipitai in camera e chiesi se qualcuno avesse voglia di farmi un massaggio. Lo zio acquisito, ospite per cena, mi raggiunse e si offrì volontario. Iniziò con qualche movimento di polpastrelli su spalle e collo, poi le sue mani rugose toccarono il mio seno acerbo. Così iniziò la mia violenza, con il delitto d’indossare una maglia larga e non portare il reggiseno, in casa mia. In un frammento di secondi, presi una decisione che sapevo essere sbagliata ma, per la prima volta in vita mia, non ero in grado di farmi sentire: mi convinsi dell’involontarietà del gesto osceno e feci finta di nulla, silenzio totale. Comunque, per lo zio, i giorni passarono come se nulla fosse successo. Poi arrivò l’inverno e, nella notte di un Natale, fui accompagnata a dormire a casa degli zii, per scartare i regali con la mia cuginetta. Era passata la mezzanotte, nelle camere al di là del corridoio dormivano mia zia e la bambina, mi sedetti sul divano per guardare un film e lo zio, dopo aver chiuso la porta del salotto, fece lo stesso. Allungò il braccio sulle mie spalle, lo scansai, lui continuò con alcune carezze sul viso, sulle cosce e poi ai bordi dell’elastico dei leggins. “Ti faccio il solletico?”. Così, ogni fonte da cui traevo forza, ogni urlo, si estirparono. E con loro io. L’incubo del mio Natale fu celato dietro a un cuscino. Non so descrivervi quanto sia stato straziante, però so dirvi che ebbi paura, di quella fredda e cruda.

Quando finì, mi lasciò sul divano come si lascia la pattumiera al ciglio di un marciapiede, con i pantaloni abbassati e il corpo sgretolato; uscì e si accese una ‘Chesterfield Rossa'. Raccolsi ossa, sangue, metà anima e me ne andai in camera.  Poi arriva il dopo, l’inesorabile e maledetto dopo. Si divide in due grandi insiemi: il male che ti fai tu e il male che ti fa il mondo. Così, in una giornata come tante, afferrai uno spiraglio di coraggio, presi la stanchezza, la confusione, i frammenti di vita che mi erano rimasti e confessai tutto. Fu struggente. Mia mamma mi abbracciò, con un’espressione di fallimento dipinta sul viso, mio papà, con gli occhi rossi dalla rabbia, convocò sua sorella e sua mamma. Quel maiale di mio zio, quella notte, fu allontanato e cacciato da casa. Le mia violenza e le mie molestie furono tempestivamente denunciate alle autorità: ne è seguito un processo durato 7 anni. Il mondo ha le sue 7 meraviglie e io ho i miei 7 anni di processo contro il mondo. In questi 7 anni ho dovuto affrontare il secondo atto: il male che ti fa il mondo.

Parte della famiglia ha abbandonato me e i miei genitori. Mio nonno chiese di mantenere la vicenda in famiglia. Mia zia, dopo averlo cacciato da casa, lo riaccolse. I peggiori furono quelli che dicevano che me lo fossi andata a cercare: perché ero una bambina vivace, perché avrei potuto fare qualcosa, perché lo zio io, lo abbracciavo sempre.  divorando. In questi 7 anni di processo, sono stata sottoposta a interrogatori insolenti. L’avvocato di quel verme di mio zio mi guardava con un’aria sfrontata e se ne usciva con “Ah bene, sappiamo che lei ha avuto difficoltà a scuola”, “Ha mai avuto problemi in famiglia?”, “Parliamo del papà che l’ha abbandonata”, “Come mai la notte di Capodanno, nonostante la violenza, è andata a una festa con amici?”, e così via. Diceva che erano domande necessarie per valutare la mia credibilità. Il mondo vuole che ne muori, altrimenti mica ci credono. Vogliono che cadi in depressione, come se la depressione è tale solo se estenuata. Vogliono che tenti il suicidio e che chiudi gambe e cuore per sempre, o almeno finché non finisce il processo. Si aspettano che la vittima standard non abbia vita sociale e che la sua vita si fermi a quell’episodio, altrimenti non fa abbastanza pena.

Era il 7 maggio del settimo anno di processo, in un’aula del Tribunale di Milano. Quando varcai la porta la sete di giustizia mi strozzava. Guardavo la cella e pensavo a quante vite vi siano state gettate dentro, a quanti animali vi siano passati. Ed ora era il momento di buttare la chiave dell’ennesima bestia. Mia mamma si sedette in ultima fila, io in seconda, dietro al mio violentatore. Il suo odore lercio galleggiava denso nell’aula. Poi mi chiesero di raccontare per l’ennesima volta, tutto e dall’inizio. Buttai fuori tutto. Ebbi il fegato d’incrociare gli occhi di quello che, una volta, era mio zio. Mi resi conto di quanta disumanità vi fosse dipinta e rimasi allibita da quanto schifo possa contenere un solo corpo. Non mi sono mai chiesta quale motivo lo spinse a fare ciò che ha fatto perché ci sono cose che non vanno capite, ci sono cose che vanno condannate. La violenza sessuale è una di queste. Poi pronunciarono la condanna. Feci un respiro profondo e piansi per orgoglio, per gratitudine, per me stessa e per le persone che mi erano rimaste accanto.

Quest’anno sarà l’anno dell’infinito, l’ottavo. Ho sempre desiderato visitare Roma. Respirare i suoi colori, i suoi odori e i suoni di qualche fisarmonica in una via romantica, affacciarmi al Colosseo ed essere travolta dalla storia e dalle leggende. Quest’anno ci andrò, per la Cassazione. Confido nella magia della città, quella del mio avvocato e di chi avrà l’ultima parola, per esaudire un altro mio grande sogno: GIUSTIZIA una volta e per tutte. La mia vita in questi 7 anni ha preso una piega diversa da come mi narravano da bambina, ma è andata avanti. Sono addirittura riuscita a innamorarmi e anche a soffrire per un tradimento o per aver ricevuto poco amore. Nel frattempo sono diventata sorella e ho ricominciato a festeggiare il Natale. Ho imparato una cosa in questi lunghi anni ed è che si può fare: si possono prendere il dolore, la tristezza, la delusione, la violenza, e ce ne si può coniare la versione migliore di se stessi. Dopo tutto, nonostante tutto, oggi non nascondo più la X del mio nome.

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