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Ultime notizie sullo stupro di gruppo a Palermo

Ma il linciaggio di un criminale non è mai un favore alla vittima

Dal ritorno della proposta leghista sulla castrazione chimica agli attacchi sui social, fino al trasferimento per minacce in carcere: sul caso dello stupro di Palermo emergono istinti di vendetta che replicano sempre gli stessi schemi di violenza e sopraffazione.
A cura di Roberta Covelli
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Il caso dello stupro di Palermo è ormai noto: una ragazza è vittima di sette giovani, accusati di averla violentata in gruppo e di aver realizzato video del crimine. Le immagini dello stupro vengono scambiate nelle chat, con discorsi che rivelano una misoginia e un senso di impunità raccapriccianti, anche da parte di persone diverse dagli indagati. Intanto, anche grazie alle intercettazioni, la denuncia della vittima trova conferma ed emergono anche il rischio di inquinamento delle prove e di reiterazione di reati, tanto da spingere il giudice per le indagini preliminari a disporre la custodia cautelare in carcere (salvo per il più giovane, affidato a una comunità protetta).

La notizia però non è più solo cronaca: i fatti hanno ormai innescato reazioni, tra cui la minaccia di ritorsioni in carcere e varie forme di linciaggio social, con video-fake, auguri di vendetta e approfittamenti politici.

La catarsi dell’indignazione

Le dinamiche social in questi casi sono piuttosto rodate: il fatto provoca riprovazione, genera reazioni, specie quando vengono diffusi dettagli e generalità dei protagonisti. Molte persone cercano i nomi su Facebook, su Instagram, su TikTok. Se, come spesso accade, il profilo di un indagato è pubblico o aperto, c’è chi lascia commenti, maledice, augura il peggio. Le foto degli accusati vengono diffuse, prese dai loro profili con preghiera di condivisione, perché chiunque riconosca le loro facce. I casi di omonimia o di somiglianza sono un rischio che la folla ignora, così come la veridicità delle informazioni carpite online: ogni dato è nutrimento per l’indignazione, vero o falso che sia. L’esibizione pubblica della rabbia diventa quasi un rito, una necessità per tracciare la differenza profonda tra noi, i normali, e loro, i mostri, una catarsi per purificare la società dal male.

Non sappiamo che cosa la vittima stia provando in questo momento, ed è sacrosanto tutelare la sua riservatezza, lasciandole lo spazio e la tranquillità di cui avrà bisogno per l’elaborazione del trauma che ha subìto, senza voyeurismo e forme di esibizionismo della solidarietà. La solidarietà infatti, in casi del genere, deve essere prima di tutto culturale: possiamo e dobbiamo creare un clima in cui ogni vittima si senta al sicuro, accolta e compresa, e in cui mai debba subire giudizi, fosse anche in buonafede. E il linciaggio di chi è accusato di stupro (ma anche di chi dovesse essere condannato per la violenza) non è mai un favore alla vittima, ma al più un bisogno di marcare una differenza tra i buoni e i cattivi, di cui però si replicano gli schemi.

Uno stupro non è solo sesso, ma affermazione di dominio

Che avvenga tra le mura domestiche o in un cantiere abbandonato, che sia somministrando droghe in segreto o approfittando dell’ebbrezza volontaria, che si accompagni a botte e minacce o a ricatti più o meno espliciti, in uno stupro la violenza sessuale non è un atto erotico, ma una affermazione di dominio.

Il dominio è una degenerazione del potere: esistono poteri legittimi, tra cui quello dello Stato di punire chi viola le leggi poste a tutela dei diritti di tutti. E certamente questo potere può arrivare anche a privare qualcuno della libertà personale, a determinate condizioni e con necessarie tutele e limiti. Il potere repressivo dell’autorità pubblica però, almeno sulla carta, è (e deve essere) ben diverso dal dominio di chi organizza, compie e riprende uno stupro, violando una persona, nel suo corpo, nella sua volontà e nella sua dignità. Ed è anche per questo che dobbiamo notare i germi di violenza, pure quando cerchiamo di illuderci che siano giustificati dalle buone intenzioni di vicinanza alle vittime.

La violenza non ha mai educato nessuno, la responsabilità sì

Le parole di Ermal Meta, simili a tante lette e ascoltate in questi giorni, sono rivelatrici: riferendosi a una frase tra le chat degli accusati, il cantante ha scritto "ad ognuno di voi cani auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro".

Il problema non è solo la corrispondenza tra un crimine e la pena correlata, con una replica della stessa violenza e della stessa filosofia. Il problema sono casomai le implicazioni di un pensiero simile, che paradossalmente deresponsabilizza i carnefici: se una persona ha bisogno di essere stuprata per capire che cosa sia uno stupro, o se occorre somministrarle ormoni per castrarla chimicamente, stiamo implicitamente affermando che questa persona non è davvero responsabile del male che ha commesso, che in fondo non poteva capire, che mancava della capacità di comprendere gli atti compiuti.

Sulle punizioni, i princìpi della nostra democrazia sono invece ben diversi, e partono da una responsabilità personale, da una colpevolezza individuale. L’articolo 27 della Costituzione non si limita a escludere i trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei condannati, ma pone come obiettivo della pena la rieducazione di chi ha commesso crimini.

Il linciaggio rieduca? Lo stupro può essere una lezione? No. Se pure ci fosse un effetto correttivo nella violenza punitiva, i comportamenti cambierebbero solo per paura, non per convinzione. E si finirebbe perfino per legittimare la violenza come forma educativa, il dominio e la sopraffazione come strumenti di giustizia, invece che riconoscerli come espressione della stessa filosofia alla base di uno stupro.

La funzione rieducativa delle pene non è buonismo: è logica (e tutela delle vittime)

Non è solo un problema di principio: se malauguratamente volessimo negare dignità ai condannati, se fossero introdotti trattamenti punitivi cruenti anche rispetto ai reati più odiosi, se pure non considerassimo un problema rischiare di linciare un innocente e ritenessimo eticamente accettabile fare violenza su qualcuno nelle mani dello Stato, non ci ritroveremmo in una società più sicura. Anzi.

La funzione rieducativa delle pene non è (solo) una scelta umanitaria o una dichiarazione di principio, con il riconoscimento della dignità di ogni individuo, ma è anche una pratica di sicurezza e un investimento sul miglioramento della società. Presto o tardi, salvo rari casi, un condannato uscirà di galera: per una vittima, e in generale per le persone per bene, è preferibile trovare per strada, come individuo libero, qualcuno che abbia intrapreso un percorso di consapevolezza piuttosto che un ex detenuto che è stato punito con la stessa violenza che ha commesso, maturando frustrazioni represse pronte a esplodere. Gli abusi sui detenuti, come un linciaggio, sono la legittimazione della filosofia di uno stupratore: si priva della dignità la volontà altrui, si esercita un dominio sull’altrui corpo, si pensa che un atto di sopraffazione possa correggere, servire da lezione

I colpevoli non vanno trasformati a loro volta in vittime: devono invece essere trattati come adulti, come adulti responsabili che hanno scelto di compiere un delitto e che, per quel delitto, vanno giudicati, condannati e rieducati. E la violenza non ha mai educato nessuno a essere un bravo cittadino consapevole in uno stato di diritto.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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