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Ultime notizie sullo stupro di gruppo a Palermo

Smettetela di cercare online la vittima dello stupro di Palermo: non ci ha chiesto di essere visibile

Non vanno divulgate le generalità di una vittima di violenza sessuale e lei non ci ha chiesto di essere visibile, non si è fatta avanti, non ha detto: “Eccomi qui”.
A cura di Jennifer Guerra
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Non è trascorsa nemmeno una settimana dalla divulgazione della notizia, che il nome della vittima dello stupro di gruppo avvenuto a Palermo sta già circolando su Internet, specie su TikTok dove in queste ore i video dedicati alla vicenda stanno diventando sempre più virali. Dopo l’esposizione di nomi e profili social degli indagati, oltre che dei loro genitori, quella curiosità morbosa fatta passare per desiderio di giustizia si è spinta là dove non c’è alcuna giustificazione che tenga.

Le generalità di una vittima di violenza sessuale, però, non vanno divulgate. La regola non si limita ai soli reati sessuali, ma in questi casi le accortezze dovrebbero essere moltiplicate, perché la violenza di genere non è un fatto di cronaca come un altro. La violenza di genere non è un fatto di cronaca come un altro

Quando si parla di violenza sessuale si tende a non pensare che la vittima sia una persona in carne e ossa, che vive nel presente, che usa i nostri stessi social, legge i nostri stessi quotidiani e guarda i nostri stessi telegiornali. La figura della vittima, nel nostro immaginario, diventa quasi un fantasma. Sappiamo che c’è, ma la rimuoviamo, la trasformiamo in qualcosa – una vittima, appunto – dimenticandoci che è qualcuno.

Questo accade spesso anche per le vittime di femminicidio, la cui identità spesso viene cancellata in favore di un racconto morboso di chi è l’assassino, che lavoro fa, quanto guadagna, cosa scrive su Facebook e così via. Le vittime di femminicidio non possono assistere a tutto questo processo che le riguarda, ma chi sopravvive a uno stupro sì.

Dobbiamo immaginarci questa giovane donna che dopo l’enorme trauma che ha subìto, dopo aver visto su tutti i social il volto dei suoi stupratori, dopo che ha scoperto il contenuto delle chat che si sono scambiati, dopo che ha assistito alla creazione di gruppi Telegram per scambiarsi il video del suo stupro, ora si ritrova taggata in migliaia di post su Instagram e si ritrova protagonista di altrettanti video su TikTok che macinano news sulla sua storia.

L’invisibilizzazione delle vittime può far pensare erroneamente che sia giusto valorizzare la loro presenza quando si parla di casi come questo: perché sappiamo tutto dei sette indagati e non sappiamo nulla di lei? Perché loro possono rilasciare dichiarazioni e lei no? Il problema è che lei non ci ha chiesto di essere visibile, non si è fatta avanti, non ha detto: “Eccomi qui” e soprattutto non ci deve alcuna di queste cose, se non lo desidera. I comportamenti successivi alla violenza sessuale possono essere i più diversi, dall’isolamento, alla negazione, alla rabbia incontrollabile, al desiderio di essere viste e riconosciute. Ma nessun comportamento è giusto o sbagliato, oppure dovuto, a maggior ragione se parliamo di qualcosa di emotivamente sfiancante come l’esposizione mediatica.

Non è difficile capire perché una vittima non voglia esporsi. Anche di fronte a un caso così terribile, corroborato da numerose prove e testimonianze, c’è chi ha il coraggio di scagliarsi contro di lei o di attribuirle parte della colpa. Figuriamoci se questa generica “lei” diventa una persona identificata da un nome e un cognome.

Nel 1991, due anni dopo il gravissimo caso di stupro a Central Park che ridusse in fin di vita una jogger di 29 anni, la scrittrice statunitense Joan Didion scrisse un lungo articolo sul New York Review in cui ragionava sull’opportunità dell’anonimato per le vittime di stupro. Negli Stati Uniti non c’è questo obbligo (anzi, la libertà di espressione protetta del primo emendamento dà tutto il diritto di rendere noto il nome), ma è comunque una convenzione abbastanza diffusa. Didion si chiedeva se l’anonimato non finisse con il creare ancora più stigma rispetto a questo crimine, alimentando l’idea che una vittima di violenza dovrebbe vergognarsi o nascondersi per quanto subìto. In fondo, i giornali avevano già divulgato tutti i dettagli possibili su di lei, dall’indirizzo di casa, al posto di lavoro, al fatto che fosse vegetariana. Decine di dettagli, tranne il nome.

L’anonimato, scriveva Didion, si basa su una convenzione basata su “un numero di assunzioni dubbie, addirittura magiche. La convenzione dà per scontato, fornendo alle vittime di stupro una protezione che non è garantita alle vittime di violenze diverse, che lo stupro implichi una violazione assente da altri tipi di violenza”. Il ragionamento di Didion è molto complesso e fa riferimento al concetto di onore, nonché al razzismo (all’epoca si pensava che a commettere lo stupro fossero stati cinque giovani uomini di colore, che molti anni dopo si scoprirono essere innocenti).

Ma il motivo per cui in queste ore il nome della vittima di Palermo sta circolando è del tutto estraneo a ragionamenti come quelli di Joan Didion, che puntavano proprio a valorizzare l’autonomia decisionale. Dietro la diffusione della sua identità si cela piuttosto un meccanismo che ricorda il controverso caso di stupro dell’Università della Virginia del 2014, poi rivelatosi infondato. In quel caso il nome e i profili social della presunta vittima furono divulgati su Twitter da un blogger dell’estrema destra americana con l’intento di screditarla. Nel giro di poche ore si consumò un fuoco incrociato di tweet tra troll conservatori e social justice warrior, ciascuno con la propria agenda politica: i primi volevano attaccare la presunta vittima, i secondi sentirsi dei salvatori nei suoi confronti. Il problema è che mentre il nome di questa donna continuava a circolare e diventava il centro dell’ennesima guerra culturale, a nessuno importava davvero di lei (o della fondatezza delle sue accuse).

In questo caso ci troviamo di fronte ad accuse ben documentate e fondate, ma la sostanza non cambia: taggando questa donna sui social, svelando il suo nome in post e video, vogliamo davvero esprimerle la nostra vicinanza, vogliamo spostare i riflettori su di lei con le nostre migliori intenzioni o vogliamo fare qualcos’altro? Ad esempio, alimentare il nostro ego ricompensandolo in like, condivisioni e visualizzazioni, sentirci dalla parte giusta della storia, fare la nostra “buona azione” quotidiana sui social per poi aspettare il prossimo caso che ci indignerà e ricominciare da capo? Anche se adesso scriviamo un nome e un cognome, stiamo comunque costruendo un fantasma, dimenticandoci che in questa storia c’è una persona che non ci ha chiesto di fare niente per lei. E se ci importasse davvero qualcosa di lei, o della violenza di genere, rispetteremmo questa sua volontà.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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