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La vera storia della strage di Capaci a Confidential: “Non fu Brusca ad azionare il telecomando”

Nella quinta puntata di Confidential, il format in onda ogni lunedì alle 22 sulle piattaforme di Fanpage.it, viene ripercorsa la vera storia della strage di Capaci e aggiunti all’attentato nuovi elementi utili a ricostruire tutta la verità sulla morte di Giovanni Falcone.
A cura di Gabriella Mazzeo
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Nella serata di ieri, lunedì 29 settembre, è andata in onda la nuova puntata di Confidential, il nuovo progetto di Deepinto su Fanpage.it dedicato a inchieste e approfondimento. Alle 22 di ieri, è stata trasmessa live sui nostri canali la quinta puntata legata alla vera storia della strage di Capaci.

Dopo la minaccia di stampo mafioso alla giornalista di Fanpage.it, Giorgia Venturini, che ha trovato davanti casa la testa mozzata di un capretto, Confidential torna a parlare della vera storia della strage di Capaci. In studio erano presenti, oltre a Francesco Piccinini, anche Marta Casà, dottoressa in scienze investigative nota online come Mente Criminale, e lo scrittore Tommaso Ricciardelli, fondatore di "Parliamodimafia".

Grazie alla ricostruzione 3D realizzata da Geopop, nella puntata di ieri è stata mostrata la disposizione delle auto della scorta di Falcone negli attimi prima dell'esplosione sulla A29 nei pressi dell'uscita di Capaci. Il magistrato era alla guida della sua auto, mentre accanto a lui vi era la moglie. Seduto sul sedile posteriore c'era l'autista Giuseppe Costanza, sopravvissuto alla strage.

Attraverso le testimonianze di Costanza e di Antonio Vassallo, fotografo che nella mattina del 23 maggio del 1992 si trovò sul posto per documentare quanto accaduto, è stata ricostruita la dinamica dell'attentato a Giovanni Falcone e la storia dietro esso.

La morte del magistrato antimafia doveva essere un atto di affermazione di forza da parte di Cosa Nostra, che in un primo momento aveva deciso di uccidere Falcone a Roma, dove quest'ultimo lavorava da qualche tempo come Direttore generale degli affari penali presso il Ministero della Giustizia. Qui il magistrato girava senza scorta e sedeva ogni giorno al tavolo dello stesso ristorante: il delitto sarebbe stato semplice ma il commando di 4 killer inviati nella Capitale per studiare l'attentato è stato richiamato in Sicilia. Totò Riina aveva infatti deciso che l'omicidio sarebbe stato portato a termine lì, nella terra natia di Falcone.

A Palermo, per Falcone avrebbero dovuto essere disposte tre auto della scorta (su una delle quali viaggiava il magistrato con sua moglie) e un elicottero che però, nel pomeriggio del 23 maggio 1992, non c'era. Con l'elicottero sarebbe forse stato possibile individuare gli attentatori, vederli appostati sulla collinetta dalla quale è poi stato premuto il pulsante del telecomando che ha generato l'esplosione.

L'intervista all'ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti

Nel corso di un'intervista per il format Confidential, l'ex ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, parla di una soffiata da parte di un informatore che in altre circostanze era risultato inaffidabile su stragi politiche e di mafia nel 1992. All'epoca nessuno ha creduto a queste parole, tranne l'ex ministro, che ne aveva parlato in Parlamento. Nelle istituzioni, sempre secondo Scotti, vi erano persone disposte a trattare.

Nel '92 eravamo in una fase di cambiamento della mafia e delle sue politiche. Dall'intelligence ci dissero del rischio di stragi e scontri. Nelle loro note c'erano anche le parole di questo depistatore, solitamente non molto affidabile. L'intelligence riteneva che le sue parole fossero vere, anche se la morte di Falcone non vi era ancora stata. Fu un periodo molto complesso. C'era un confronto interno all'amministrazione e alla politica, perché c'era chi pensava che si potesse fermare la mafia e chi invece riteneva che si potessero fare accordi".

In quest'ambito si inquadra l'incontro alla presenza di Santino Di Matteo, ex boss oggi collaboratore di giustizia, tra Brusca, Paolo Bellini, legato alla strage di Bologna avvenuta il 2 agosto del 1980, e Antonino Gioè, membro di Cosa Nostra.

Secondo l'avvocato Luigi Li Giotti, che difendeva Brusca, dopo un furto alla Pinacoteca di Modena, Bellini aveva preso contatto con Gioè per trovare alcune opere d'arte rubate. In cambio, Gioè aveva chiesto gli arresti ospedalieri per 5 boss.

Alla base di questa trattativa vi era un progetto che prevedeva benefici per i mafiosi detenuti in cambio della restituzione di opere d'arte, sottratte dai musei. A suggerire questa modalità, sarebbe stato proprio Bellini che dopo la strage di Bologna, un periodo di latitanza in Brasile e il ritorno in Italia, si pone come interlocutore con Cosa Nostra nella trattativa relative alle opere d'arte sottratte dai musei.

Antonino Gioè poi morì in carcere nel 1993. In una lettera dopo il suicidio, suggerisce di "seguire Di Matteo (Santino ndr)" per avere informazioni su Cosa Nostra e su Capaci.

La vera storia della strage di Capaci

E qui si arriva alla vera storia della strage di Capaci, con Santino di Matteo che racconta di aver portato il tritolo sul luogo dell'esplosione, ma che non fu utilizzato solo quello per uccidere Falcone. Sul posto, secondo quanto raccontato da Giovanni Brusca, coinvolto nella strage, Cosa Nostra trovò anche sacchi di Semtex, esplosivo plastico che si trova solo nei depositi militari.

Secondo quanto racconta Brusca nel verbale custodito nella busta mostrata durante la live, nei pressi del tunnel usato per far esplodere la A29 furono portati sacchi di tritolo e spostati due sacchi di Semtex che erano già sul posto. Il Semtex è un esplosivo tracciabile in quanto reperibile solo nei depositi militari.

In una seconda busta vuota, avrebbero dovuto esserci le foto di Antonio Vassallo, fotografo che nel 1992 arrivò per primo sul luogo della strage di mafia. Fu lui il primo a immortalare quanto accaduto, prima con alcune foto panoramiche e poi con scatti più ravvicinati. "Due persone in abiti civili si sono avvicinate, mi hanno detto di essere poliziotti mostrandomi velocemente un tesserino – racconta – e mi hanno chiesto di consegnare il rullino della mia macchina fotografica. Io gliel'ho lasciato. Probabilmente arrivando tra i primi sul posto, avevo fotografato qualcuno che non avrei dovuto vedere lì".

Il rullino è scomparso nel nulla, così come l'agenda rossa di Falcone, portata via dal luogo della strage. Il sostituto procuratore antimafia Antonino Di Matteo, ha sottolineato che nella strage, oltre agli uomini di Cosa Nostra, hanno partecipato "soggetti terzi", sia nell'ideazione che nell'organizzazione, che probabilmente dell'attuazione.

L'ex ministro dell'Interno Scotti, racconta poi che l'attentato a Falcone è stato portato avanti con l'uso di tecnologie molto raffinate. "Siamo lontani dalla tradizione della mafia – spiega -. Non c'era esperienza di attentati simili nel mondo. Sono state usate tecnologie in grado di far saltare in aria una macchina da centinaia di metri di distanza". E infatti Brusca avrebbe avuto tra le mani un telecomando da azionare per far esplodere il tratto di autostrada sul quale passavano le auto della scorta di Falcone.

Secondo l'avvocato Li Giotti, Gioè avrebbe più volte incitato Brusca a premere il pulsante. "Si è reso conto che la velocità delle auto non era quella prevista e ha tardato ad azionare il telecomando". Secondo il fotografo Vassallo, quello nelle mani di Brusca era un "finto detonatore". "Credo che quello vero fosse nelle mani dei veri specialisti di questo tipo di attentati" spiega. La circostanza non viene confermata o smentita da Scotti, che nell'intervista spiega che il problema era che "Giovanni Falcone doveva morire".

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