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La storia di Sean Binder, che rischia 20 anni di carcere per aver aiutato i migranti: “Solidarietà non è reato”

L’intervista di Valeria Solarino all’attivista Sean Binder per Amnesty International che il prossimo 4 dicembre andrà a processo a Lesbo, in Grecia, dopo essere stato accusato – tra gli altri – di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Se condannato, rischia 20 anni di carcere: “Il punto non è colpire me o i miei colleghi, ma mandare un messaggio a tutti. La solidarietà non può essere giudicata un reato”.
A cura di Redazione
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A cura di Valeria Solarino

“Se dici che qualcosa è criminale o se dici che qualcosa è eroico stai suggerendo che non è normale. Io invece credo che sia normale aiutare qualcuno in difficoltà”. Si apre così l’intervista che ho fatto all'attivista Sean Binder per Amnesty International, che da anni porta avanti una campagna contro la criminalizzazione della solidarietà. Mi racconta di essere andato in Grecia, nel 2017, per aiutare i profughi che arrivavano su quelle coste. “Perché – dice – in un mondo ideale ci sarebbero corridoi umanitari per permettere a chi lascia il proprio paese di farlo in sicurezza”, ma nel mondo in cui viviamo non è cosi e spesso questi viaggi diventano mortali.

“Era inaccettabile per me veder morire la gente ai nostri confini, sulle nostre coste. E tutto questo, in quanto cittadino europeo, avveniva anche in mio nome”. Così, da questa semplice riflessione, con un bagaglio di studi sulle politiche di sicurezza e difesa europea, e con un brevetto da sub specializzato in salvataggio, questo ragazzo all'epoca poco più che 20enne, decide di andare a Lesbo. Entra in contatto con la ONG greca ERCI (Emergency Response Centre International) e presto ne diventa il coordinatore. Il suo compito è quello di ascoltare i rumori del mare, di notte, quando gli sbarchi sono più numerosi: un lamento, il pianto di un bambino o l’infrangersi delle onde contro il legno delle barche. Tutti segnali dell’arrivo di persone in fuga. È proprio durante una di queste veglie, nel febbraio del 2018, che la polizia greca ferma lui e altri attivisti, perquisisce le loro abitazioni, ma non trovando nulla li rilascia dopo 36 ore, in attesa di ulteriori indagini.

È un primo segnale: quello che fanno non è gradito. Verrà arrestato pochi mesi dopo e trattenuto per 106 giorni in carcere. Rilasciato sotto cauzione, affronta un primo processo per i reati più lievi:uso illegale di frequenze radio, spionaggio, riciclaggio di denaro, ma le accuse crollano per “vizi procedurali”.

Ora, dopo 7 anni, è in attesa del processo per i reati più gravi: far parte di un’organizzazione criminale, favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, falso. La prima udienza è prevista per il 4 dicembre a Lesbo. Se giudicato colpevole, rischia fino a vent’anni di carcere. Sean sa di non aver commesso nessun reato, ma teme la condanna anche perché potrebbe diventare un monito per altri attivisti: d’altra parte tutte le operazioni di ricerca e soccorso presenti in quell’area, dopo il suo arresto, si sono fermate. "In un certo senso hanno ottenuto quello che volevano – dice – Il punto non è colpire me o i miei colleghi, ma mandare un messaggio a tutti”.

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Seduto su una panchina di un parco di Camden Town, a Londra, ci racconta la sua storia con tono pacato: dice che viene spesso qui perché questo posto lo rilassa, gli dà serenità e chissà se riesce a ritrovarla anche ora, mentre per la nostra intervista ripercorre quei mesi in carcere, l’arresto, le perquisizioni. Confessa che gli piacerebbe costruire una famiglia, avere dei figli ma finché non saprà l’esito di questo processo non riesce a fare piani per il suo futuro. È come se la sua vita fosse sospesa: quando parla del rischio di passare i suoi prossimi 20 anni in carcere in caso di condanna, la sua voce si incrina e il suo sguardo luminoso si spegne un po'. Quando hai già visto i tuoi diritti negati, quando se già finito in carcere una volta e per giorni non hai avuto la possibilità di parlare con un avvocato e nemmeno con un interprete che ti spiegasse cosa stesse succedendo, quando sei stato obbligato a firmare delle carte senza conoscerne il contenuto, la speranza che le cose seguano il giusto corso, inevitabilmente, un pò la perdi.

Io non riesco a credere che ciò possa avvenire veramente, che un ragazzo di trent’anni possa passare i suoi prossimi venti in un carcere greco solo per aver aiutato altre persone in difficoltà. Cerco nelle smorfie del suo viso una rassicurazione, ma lui questa possibilità la contempla davvero. Mi sono sempre chiesta perché i governi ce l’abbiano tanto con le ONG, dato che poi in molti casi la loro attività copre solo una piccola percentuale dei salvataggi effettivi, che per la maggior parte avvengono ad opera della guardia costiera. La risposta che mi sono data è che gli attivisti oltre al lavoro di soccorso sono anche testimoni di ciò che accade. Se ad ogni sbarco venisse data la notizia di quante persone raggiungono le nostre coste, presto capiremmo che l’immigrazione non è un’emergenza, ma un dato di fatto e che le politiche sempre più restrittive e disumane rendono solo più penoso il destino di queste persone, ma non fermano certo la loro fuga. Allora sarebbe meglio parlare di emergenza in relazione all’accoglienza e al coordinamento tra i vari stati dell’Unione: e qui Sean mi fa notare che mentre la sua vicenda veniva definita dalla Corte Internazionale Europea come uno dei più gravi casi di criminalizzazione della solidarietà, nulla veniva fatto a livello comunitario per far fronte concretamente alla questione migratoria.

La sera prima della nostra intervista ci incontriamo in un pub, scelto a caso perché, ci confessa, non esce molto la sera e non frequenta locali. Serena e Francesca di Amnesty International cercano di metterlo a proprio agio spiegandogli quello che avremmo fatto il giorno dopo, mentre Anna, addetta alle riprese, ruba immagini che ci serviranno per il racconto di questa storia. Io lo osservo: è riservato e forse un po' a disagio per la nostra esuberanza. Ha uno sguardo dolce e gentile. Mi chiedo quanta paura debba fare la purezza di un ragazzo che decide di aiutare magari proprio altri ragazzi, esattamente come lui, perché si sente responsabile del loro destino, perché sente su di sé una fortuna e dei privilegi immeritati o semplicemente perché sa che è giusto cosi. Ci confessa di aver deciso di studiare per diventare un avvocato proprio quando in carcere qualcuno si è occupato di lui e ci ringrazia infinite volte per essere lì a raccontare la sua storia: “È importante per me, certo – ci dice – ma è importante vincere questo processo perché la solidarietà non può essere giudicata un reato”.

E quando gli domando se secondo lui un paese possa reggersi solo sulla solidarietà dei suoi cittadini con grande saggezza mi risponde che il tema è molto delicato perché “un conto è la solidarietà –  dice – che si può avere come no, perché dipende da una scelta individuale, altro conto è l’obbligo legale. E se crediamo che lo strumento principale per aiutare chi ha bisogno si riduca a quest’indole personale, trascuriamo il fatto che non tutti possano essere d’accordo. Se invece di fronte a tematiche così importanti vengono adoperati provvedimenti governativi, quell’aiuto arriverà, che ci piaccia o no”.

Alla fine dell’intervista mi chiede se ha parlato bene, se è stato chiaro, ma non c’è vanità: solo desiderio di completezza, di aderenza a un modo di stare al mondo, che si porta con sé una volontà di resistere al sospetto e all’indifferenza. In un’epoca appannata dall’ostentazione, dove anche la partecipazione rischia di diventare spettacolo, Sean ripete più volte, nel corso della nostra conversazione di essere un ragazzo normale, di sentire il fatto di essere un cittadino europeo innanzitutto come una responsabilità, prima che un privilegio, e di avere a cuore la difesa delle persone, prima che dei confini. E mentre ci salutiamo io penso a quanto sarà bello quel giorno in cui la minaccia di questa sua condanna sarà svanita, a quando potrà davvero riprendersi in mano la vita e quando l’attivismo e la solidarietà saranno da tutti definiti una cosa normale…

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