La storia di Paolo affetto da Alzheimer precoce, la moglie Michela: “A 43 anni ha iniziato a perdere pezzi di sé”

"Mio marito a 43 anni ha iniziato a manifestare alcune "stranezze" che nascondevano l'Alzheimer precoce, quando dimenticava di andare a prendere i figli o diceva che i bambini gli nascondevano le cose. Aveva problemi al lavoro, stava perdendo pezzi di sé".
A parlare a Fanpage.it è Michela Morutto, moglie e caregiver del marito, Paolo Piccoli, affetto da Alzheimer precoce. La coppia è protagonista di una storia dolorosa ma necessaria.
Insieme ai loro due figli hanno affrontato la malattia con coraggio e determinazione ma il loro esempio deve, ancora una volta, richiamare l'attenzione sulle difficoltà di chi soffre di malattie neurologiche degenerative e delle loro famiglie.
"A casa era diventato impossibile stare, anche a causa dei suoi repentini cambi d'umore. Paolo dava la colpa a me e ai nostri figli, che all'epoca erano molto piccoli, di cose che succedevano e che non dipendevano da noi. Penso che certe situazioni le riconducesse alla malattia di suo padre e non volesse pensare che gli stesse succedendo la stessa cosa".

Infatti, come ci racconta Michela, anche il padre di Paolo è stato un paziente con demenza precoce. "La nostra grande difficoltà è stata proprio trovare medici che capissero che mio marito aveva una malattia che di solito colpisce le persone anziane, è stato difficile avere una diagnosi", ci spiega.
"C'è stato un ritardo che, con il senno di poi, forse non avrebbe cambiato nulla. Ma noi abbiamo fatto viaggi della speranza, ci siamo mossi per avere pareri anche dall'estero, per avere anche diagnosi sbagliate. – aggiunge – Sono anche io una persona con disabilità, ho rinunciato alle mie cure per occuparmi di mio marito".
"La giovane età di Paolo gli ha dato molta consapevolezza – ricorda ancora Michela – e questa è stata una cosa terribile. Quando ha preso coscienza del fatto che aveva la stessa malattia del papà, mi ha detto: ‘Mi uccido, non voglio far passare a te e ai ragazzi quello che ho passato io'. Fortunatamente, non ha avuto la forza, ma spesso ho temuto il peggio".
Un giorno Paolo ha detto a sua moglie: ‘Arriverà un momento in cui mi dovrai lasciare in una struttura e continuare la tua vita con i ragazzi'. E il momento è arrivato un paio di anni fa.
"Non sono solo moglie, ma anche madre e ho dovuto salvare anche i miei figli. Con il Covid la reclusione in casa ha fatto precipitare la situazione, quindi ho dovuto chiedere aiuto a una struttura dove Paolo è entrato a 48 anni. Oggi ci riconosce con il cuore e non sempre con la mente".

Quando chiediamo a Michela dove ha trovato la forza per affrontare la situazione, lei ci risponde: "Dovevo dare una speranza ai miei figli che sanno che il nonno e il loro papà si sono ammalati da giovani. Anche se la ricerca arranca, non ci sono miglioramenti all'orizzonte. E in Italia si chiedono leggi per i caregiver ma le istituzioni non fanno nulla".
La storia di Michela e Paolo è stata raccontata in un libro, Un tempo piccolo, e nei prossimi mesi uscirà anche un film. Strumenti che hanno permesso alla coppia di far conoscere la propria situazione ma, ci racconta ancora Michela, sono mancati e ancora mancano aiuti concreti per loro ma anche per le tante famiglie che convivono una malattia così complessa.
"Negli anni abbiamo ricevuto riconoscimenti (uno dei figli è stato nominato Alfiere della Repubblica proprio per essersi preso cura del papà, ndr) e sono onorata che siamo diventati un baluardo ma abbiamo sentito anche tante parole al vento, tante promesse mai mantenute. Peggio della malattia c'è l'indifferenza, sono 10 anni che sono in questa situazione".
E aggiunge: "Non c'è alcun supporto reale per i caregiver, siamo personale gratuito. Io arrivo a fine mese da sola e con due figli a carico che si interrogano tanto su quello che sta succedendo. Mi dicono che ‘hanno una marcia in più' ma io avrei voluto che avessero un papà e fossero sereni".
"È importante che si parli di tutto questo ma le cose da quando si è ammalato il padre di mio marito non sono cambiate. Non ci sono i supporti adeguati, solo tanto parlare. Eppure non esistono malattie di serie A e di serie B".
A chi pensa di trovarsi in una situazione simile Michela consiglia di rivolgersi subito a un neurologo per fare una visita e dei test, "se uno inizia ad avere cambi di carattere, a dimenticare le cose e, soprattutto, a cosa servono", precisa.
Allo Stato invece Michela chiede ancora una volta e con la stessa forza di "farsi carico delle persone, di accompagnarle nei percorsi. Non bisogna abbandonarle a loro stesse, ci deve essere una presa in carico totale".
"Sono anni che continuo a battermi perché le cose devono cambiare. Spero che prima o poi si stanchino di vedermi, – aggiunge con un po' di amara ironia – ma bisogna fare in modo che si prenda coscienza di questa malattie così invalidanti".