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Cambiamenti climatici

La crisi climatica può essere sconfitta in tribunale?

Le KlimaSeniorinnen (letteralmente “le vecchiette per il clima”) hanno ottenuto una condanna per inazione climatica dello stato Svizzera da parte Corte Europea dei diritti umani. Una sentenza destinata a diventare un modello per altre decine, forse centinaia di cause contro aziende e stati che non fanno nulla per fermare la crisi climatica.
A cura di Fabio Deotto
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Possiamo salvare il mondo a furia di carte bollate? Può un'azienda fossile essere condannata per averci rovinato il futuro? E un governo? La crisi climatica verrà sconfitta in tribunale? 

Solo pochi anni fa, domande di questo tipo sarebbero sembrate utopistiche, nella migliore delle ipotesi ingenue, oggi invece appaiono del tutto lecite, soprattutto dopo che martedì scorso la Corte Europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato la Svizzera per inazione climatica

Non è la prima volta che una causa climatica viene portata in tribunale e vinta: nel 2019, per dire, la Corte Suprema olandese aveva condannato il governo dei Paesi Bassi a tagliare del 25% le proprie emissioni; nel 2021 la Corte costituzionale federale tedesca ha stabilito che la legge climatica varata nel 2019 fosse incostituzionale; mentre nell'agosto del 2023 una corte distrettuale del Montana ha deciso di imporre a chiunque voglia approvare nuovi progetti fossili di valutare l'impatto che potrebbero avere sulle generazioni future.

La sentenza di martedì, però, avrà probabilmente ricadute anche al di fuori dei confini della federazione elvetica: oltre a stabilire un importante precedente, infatti, potrebbe rappresentare un modello di riferimento per chi nei prossimi anni vorrà trascinare i responsabili della crisi climatica davanti alla sbarra.

Le cause climatiche sono destinate ad aumentare 

Le cosiddette KlimaSeniorinnen (in italiano "vecchiette per il clima") avevano fatto causa al governo elvetico accusandolo di non aver tutelato la loro salute e i loro diritti con politiche climatiche insufficienti; la Corte di Strasburgo ha dato loro ragione: la Svizzera ha violato l'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani; il che è interessante, perché a una lettura distratta non sembrerebbe parlare esplicitamente di questioni ambientali.

L'articolo 8, infatti, recita: "Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza." Deliberando a favore delle KlimaSeniorinnen, di fatto, la Cedu ha ritenuto che un insufficiente intervento governativo in materia di riduzione delle emissioni e di tutela ambientale, rappresenta una violazione di uno o più dei quattro aspetti individuati dall'articolo 8. Ed è per questo che in ambito giuridico c'è chi, come Joie Chowdhury del Center for International Environmental Law, ritiene che questa sentenza vada ad espandere il novero sia di chi possa essere considerato vittima di ricadute climatiche, sia di chi possa essere giudicato responsabile di alimentare (o non fronteggiare a dovere) la crisi climatica.

Fino ad oggi, intentare cause climatiche ha spesso significato dover trovare appigli legislativi che, seppur non direttamente correlati alla questione, fornissero un punto d'accesso giuridico per avviare un procedimento. Negli ultimi tempi, però, intentare cause climatiche sta diventando più facile, basti pensare che tra il 2017 e il 2022 il numero di processi simili è aumentato da 881 a 2180. Una cifra che è destinata ad aumentare, non fosse altro perché ogni anno emergono studi sempre più precisi che consentono di stabilire un nesso tra i danni che la crisi climatica provoca e chi ne è di fatto responsabile.

Un Don Chischiotte peruviano

Nel 2015, Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha deciso di imbarcarsi in un'impresa che possiamo serenamente definire donchisciottesca. Il villaggio in cui abita è minacciato da un lago glaciale in rapida espansione: il lago c'è sempre stato, ma da quando i ghiacciai hanno cominciato a sciogliersi il suo volume sta aumentando a velocità tale che a breve finirà per tracimare e inondare i campi e il villaggio. Per tutelare la propria attività e la comunità a cui appartiene, l'agricoltore ha fatto causa al colosso energetico tedesco RWE, cercando di obbligarlo a pagare parte dei costi di adattamento a questa minaccia. Poiché è stato calcolato che, storicamente, RWE è responsabile per lo 0,47% delle emissioni di CO2 globali, sostiene Lliuya, allora deve occuparsi di ripagare lo 0,47% dei danni climatici e dei costi di adattamento che il villaggio si trova ad affrontare, una cifra che si aggira attorno ai 20.000 dollari. Era la prima volta che un cittadino da solo si metteva contro un colosso energetico, e nonostante il braccio di ferro giudiziario non sia ancora concluso, il suo esempio ha ispirato decine di altre cause climatiche.

Se anche il processo Lliuya v. RWE dovesse concludersi con una vittoria, si rafforzerebbero i presupposti che consentirebbero a tantissimi altri cittadini, in altre parti del mondo, di costituirsi parte civile per veder tutelato (o risarcito) il proprio diritto a un ambiente sano.

Sembrerebbe dunque aprirsi un'età dell'oro per le cosiddette climate litigation, ma sebbene i tribunali si stiano mostrando sempre più inclini a individuare le responsabilità di governi e aziende fossili nell'emergenza climatica, ed esistano tutte le condizioni perché la via giudiziaria diventi una delle direttrici principali per la lotta alla crisi climatica, ci sono una serie di limiti che potrebbero ostacolare questa strategia.

I limiti delle cause climatiche

Nel 2018, archiviando una causa climatica contro Chevron, il giudice americano William Alsup ha motivato la sua decisione invitando a considerare il doppio ruolo che i combustibili fossili hanno avuto nella storia dell'umanità: "La nostra rivoluzione industriale e lo sviluppo del mondo moderno sono stati letteralmente alimentati dal petrolio e dal carbone."Si legge nel verdetto: "Senza questi combustibili, praticamente tutti i nostri monumentali progressi sarebbero stati impossibili. Tutti noi ne abbiamo beneficiato. Avendo raccolto i benefici di questo progresso storico, sarebbe davvero giusto ignorare la nostra responsabilità nell'uso dei combustibili fossili e attribuire la colpa del riscaldamento globale a coloro che hanno fornito ciò che abbiamo richiesto?"

Una posizione che oggi scricchiola molto di più rispetto solo a sei anni fa, un po' perché i danni prodotti dal riscaldamento globale sono molto più visibili, un po' perché la posizione delle aziende fossili è sempre meno ambigua. Se è vero che negli ultimi due secoli i combustibili fossili hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita di ogni settore, e sono stati dunque sfruttati anche per finalità virtuose, e se è vero che l'intera società occidentale è tutt’oggi incardinata attorno ai fossili, e dunque abbiamo tutti una parte di responsabilità nel loro consumo, è anche vero che almeno dagli anni '70 ad oggi le maggiori aziende fossili hanno fatto enormi pressioni per far sì che la nostra dipendenza energetica dai fossili rimanesse tale. Questo, spesso, nonostante fossero ben al corrente delle ricadute devastanti che la combustione di idrocarburi avrebbe comportato. Per questo avranno più chance di vittoria le cause climatiche che puntano ad ostacolare nuovi progetti fossili, come quelle avviate da Melinda Janki contro ExxonMobil in Guyana.

Pur mantenendo un sano ottimismo, è bene prepararsi a vedere emergere una serie di resistenze a questo approccio nei mesi a venire: le aziende fossili insisteranno sulla presupposta responsabilità collettiva nell'utilizzo dei combustibili fossili, o sull'impossibilità di attribuire in modo certo le diverse responsabilità, mentre i governi probabilmente confideranno nella cauta omertà delle corti locali.

Di recente, dopo oltre due anni di udienze, è arrivata la sentenza del primo processo climatico nei confronti dello Stato italiano: i firmatari della causa Giudizio Universale chiedevano al tribunale che venisse riconosciuta l'insufficienza delle politiche climatiche adottate dai governi per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini italiani. A differenza della causa svizzero, in questo casola sentenzaha stabilito che non esistono tribunali in Italia che possano esprimersi sulla questione; questo nonostante nel 2022 la tutela dell'ambiente sia entrata nella carta costituzionale.

La strada per ottenere giustizia climatica nei tribunali, insomma, è ancora lunga. Ma il caso delle KlimaSeniorinnen dimostra un'altra volta che la pressione che i cittadini possono esercitare sul moloch fossile è molto più decisiva di quanto si possa immaginare.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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