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Il carcere non è la soluzione ai femminicidi: inasprire le pene non cancellerà la violenza di genere

Inasprire le pene non aiuterà a ridurre il numero dei femminicidi. La violenza di genere non è un problema individuale, ma politico e sociale: va sovvertito lo status quo e la nostra idea di società.
A cura di Natascia Grbic
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Emanuele De Maria a sinistra, a destra Chamila Wijesuriya
Emanuele De Maria a sinistra, a destra Chamila Wijesuriya

Venerdì 9 maggio Emanuele De Maria ha ucciso Chamila Wijesuriya. La mattina successiva ha accoltellato un collega di lavoro, e poi si è suicidato gettandosi dal Duomo. Quello che appare a tutti gli effetti essere l’ennesimo femminicidio, ha sollevato molte polemiche per un dettaglio non di poco conto: Emanuele De Maria era un detenuto che aveva ottenuto il permesso di lavorare all’esterno del carcere dopo che nove anni prima aveva ucciso un’altra donna, la 23enne Oumaima Racheb.

​"La scia di sangue che ha sconvolto Milano, provocata da Emanuele De Maria, il detenuto del carcere di Bollate che ha ucciso una donna, ha ferito gravemente un uomo e poi si è lanciato dal Duomo, deve indurre tutti a una profonda riflessione sulle modalità dei permessi concessi a detenuti che hanno precedenti gravissimi come De Maria – ha dichiarato la senatrice di Fratelli d’Italia Susanna Donatella Campione –  Lascia atterriti che l'uomo nel 2016 avesse sgozzato una donna e appena 9 anni dopo abbia compiuto un altro femminicidio con le stesse modalità. La sottovalutazione della pericolosità del detenuto porta purtroppo a conseguenze tragiche. La legge voluta dal governo Meloni stringe le maglie e rende più difficile che si ripetano casi come quello del detenuto di Bollate. Dobbiamo arrivare velocemente all'approvazione di questa legge per tutelare le donne nel mirino di uomini violenti che non possono essere lasciati liberi ma devono stare in carcere". Alle sue parole si sono unite quelle del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, che ha annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere di individuare e sanzionare il giudice che ha concesso i permessi a De Maria.

Di fronte a un crimine, specialmente quando riguarda la violenza di genere, le reazioni più immediate sono sempre le stesse: “buttate la chiave!”, “carcere a vita!”, “che non esca più di prigione!”, e così via. A questo fanno eco le dichiarazioni dei politici, che passano dal proporre un inasprimento delle pene al millantare punizioni limite come la ‘castrazione chimica’ per pedofili e stupratori. Parole che, lo dico da subito per chiarire la mia posizione, parlano alla pancia delle persone e non risolvono il problema della violenza di genere. La quale, per essere sradicata, ha bisogno di un lungo lavoro di decostruzione e ricostruzione della società, che di certo non viene risolto con il carcere a vita.

Da sempre i femminismi si sono occupati del rapporto tra carcere, violenza di genere ed esigenza di tutelare le donne abusate, sottolineando l’importanza di adottare un approccio sistemico alla questione, che non può essere solo repressivo. Questo perché la violenza di genere non è individuale, non riguarda esclusivamente il rapporto tra due persone, ma l’intera società. Agire sulla singola persona non affronta il problema, ma risponde solo a un desiderio di vendetta cui dobbiamo rifuggire se vogliamo cambiare effettivamente le cose. Come scrive la scrittrice e attivista Giusi Palomba nel libro “La trama alternativa”, “l’isolamento può generare angoscia e rabbia, può esacerbare dei comportamenti asociali. L’isolamento non genera riflessione o consapevolezza, non cambia, non trasforma, non educa. È solo isolamento”.

Nel 2013 l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Al suo interno vengono indicate diverse misure utili a prevenire le forme di violenza, proteggere chi la subisce, e perseguire i colpevoli, invitando gli Stati ad adottare “le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea dell'inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”, e “le misure necessarie per incoraggiare tutti i membri della società, e in particolar modo gli uomini e i ragazzi, a contribuire attivamente alla prevenzione di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione”. Gli Stati vengono invitati a finanziare centri antiviolenza, case rifugio, associazioni delle donne, e ad avviare campagne di sensibilizzazione, oltre che ad agire nelle scuole con appositi programmi dedicati ai più giovani. La prevenzione e la sensibilizzazione, quindi, sono principi cardine della convenzione.

Nel report 2020 stilato dal Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa (Grevio), che monitora l’applicazione della Convenzione da parte degli Stati, si sottolinea che, pur con consistenti passi in avanti, “la risposta da parte dell’Italia alla violenza nei confronti delle donne continui ad essere per lo più guidata dall’idea di dare precedenza all’inasprimento delle pene, senza prestare altrettanta attenzione alla dimensione preventiva e protettiva delle politiche. Il GREVIO fa presente che l’adozione di leggi punitive severe, se non supportata da un adeguato investimento volto all’abolizione delle barriere che impediscono alle donne di godere pienamente e in egual misura dei diritti umani, porta all'inefficace applicazione pratica di tali leggi e, di conseguenza, impedisce a molte vittime di ottenere un accesso equanime ed efficace alla giustizia”.

Non solo. In un articolo pubblicato su The Vision Vanessa Bilancetti, docente e attivista di Non Una di Meno, scrive che “richiedere pene sempre più dure nega il fatto che le carceri stesse siano luoghi di violenza, e che le politiche repressive rendano alcune donne ancora più vulnerabili alla violenza dentro e fuori le case. Ciò può succedere, ad esempio, per le donne migranti che per paura di perdere il lavoro – e con esso il permesso di soggiorno – nel caso in cui subiscano violenze perpetrate dai datori di lavoro o da chi le ospita non denunciano, in quanto rischierebbero di perdere i requisiti per restare dove hanno fatto tanta fatica per arrivare. Un altro caso riguarda le sex workers, che per timore di incorrere in atti repressivi o multe, evitano spesso qualsiasi tipo di denuncia delle violenze subite”.

Se non trasformiamo la società, e se continuiamo a pensare che la violenza nelle relazioni sia un problema individuale, il numero dei femminicidi non calerà mai. Chiedere solo un inasprimento delle pene non elimina la violenza di genere, è un’operazione di facciata utile solo a mantenere lo status quo. Ed è questo che puntiamo a sovvertire: non soluzioni facili, ma un cambiamento radicale che stravolga i ruoli, le convenzioni e le relazioni per come sono state vissute fino a oggi. Il femminicidio di Chamila Wijesuriya non è avvenuto perché i detenuti possono beneficiare di permessi premio: è avvenuto perché De Maria credeva, in quanto uomo, di avere diritto di vita e di morte sulle donne. Perché intendeva le relazioni in modo tossico, e non considerava le donne soggetti in grado di autodeterminarsi, decidendo ad esempio di troncare una storia. Perché non sopportava l’idea di un rifiuto, e questa cosa lo ha fatto scattare. Su questo bisogna lavorare, non sul “buttare la chiave”.

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Giornalista dal 2013, redattrice alla cronaca di Roma di Fanpage dal 2019. Ho lavorato come freelance e copywriter per diversi anni, collaborando con vari siti, agenzie di comunicazione e riviste. Laureata in Scienze politiche all'Università la Sapienza, ho frequentato nel 2014 la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.
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