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Opinioni
Cambiamenti climatici

Cosa sono le bombe di carbonio e perché dobbiamo disinnescarle per fermare la catastrofe climatica

Nel mondo esistono 425 bombe di carbonio, progetti di estrazione di fonti di energia fossile che se portati avanti vanificherebbero ogni tentativo di contenere il riscaldamento globale. Il 60% di questi maxi progetti da 1 miliardo di tonnellate di CO2 sono stati già avviati, ma per raggiungere gli obiettivi degli accordi internazionali deve rimanere sottoterra almeno il 60% del gas e del petrolio esistenti e il 90% del carbone.
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A cura di Fabio Deotto
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Cambiamenti climatici

Nei giorni scorsi, durante il summit del Forum economico mondiale a Davos, la Ministra per le Miniere e l’Energia colombiana, Irene Vélez Torres, ha annunciato che la nazione abbandonerà ogni nuovo progetto fossile. “Abbiamo deciso di non sottoscrivere nuovi contratti di esplorazione per gas e petrolio”, ha dichiarato Vélez, e si tratta di una presa di posizione epocale. Se il parlamento traducesse in realtà questa proposta (e non è detto), la Colombia sarebbe la prima nazione esportatrice di petrolio a rinunciare ai profitti fossili.

Ma anche nel più roseo degli scenari, non basterebbe la rondine Colombiana a fare primavera. Per capirlo è sufficiente muoversi sulla costa atlantica sudamericana, nella piccola nazione di Guyana, dove ExxonMobil, il più potente colosso petrolifero del globo, si accinge a avviare un progetto di estrazione che da solo minaccia di mandare in fumo ogni buon proposito.

Tutto è cominciato nel 2015, quando l’azienda statunitense trovò un giacimento petrolifero al largo della costa guyanese, da allora Exxon ha cominciato a trivellare a destra e a manca, arrivando individuare 19 potenziali siti estrattivi, per un totale di 11 miliardi di barili di petrolio potenziali.

La scoperta dell’oro nero, com’era atteso, è stata accolta con entusiasmo dal governo guyanese, che è arrivato a istituire un “Petroleum Day” per celebrare l’avvento di quella che viene vista non solo come una fonte di ricchezza economica, ma anche  (e dichiaratamente) come una risorsa per finanziare una decarbonizzazione il più possibile spedita. Nel cuore di questo ossimoro si è accomodata Exxon che, forte della sua potenza di fuoco, ha ottenuto dal governo guyanese un contratto enormemente vantaggioso che gli consente di trattenere il 75% dei profitti ottenuti dai pozzi come compensazione per i costi di investimento.

Dato che Exxon punta a raggiungere una produzione di 1 milione di barili al giorno in territorio Guyanese, questo paese, che al momento è uno dei carbon sink più preziosi del globo (per via delle sue scarse emissioni e di un territorio coperto da foresta pluviale) rischia di diventare una cosiddetta “bomba di carbonio”.

Sono 425 le bombe di carbonio pronte ad esplodere

Il termine “carbon bomb” (in italiano, appunto: bomba di carbonio) viene utilizzato per indicare quei progetti di estrazione di gas, petrolio e carbone che, se avviati, comporterebbero un aumento di gas serra superiore al miliardo di tonnellate di CO2 equivalente (per capirci: tre volte le emissioni prodotte dall’Italia in un intero anno).

In una ricerca pubblicata lo scorso luglio sulla rivista Energy Policy, Kjell Kühne e altri ricercatori dell’Università di Leeds hanno calcolato che attualmente nel mondo esistono 425 di questi progetti; la maggior parte di queste carbon bomb sono localizzati in Cina (141), in Russia (41), negli Stati Uniti (28), in Iran (24) e in Arabia Saudita (23). E sebbene l’attenzione globale si stia focalizzando principalmente su Russia e Arabia Saudita (non fosse altro, per il fatto che sono petrostati che basano un’intera economia sui combustibili fossili), le nazioni con i progetti di espansione fossile più ingenti sono Stati Uniti, Canada e Australia, che peraltro sono anche quelli che hanno la quota più alta di sussidi fossili pro-capite.

Se tutti questi progetti venissero avviati, arriverebbero a produrre oltre 600 miliardi di tonnellate di CO2, ben oltre il carbon budget globale (500 miliardi circa), ossia la quantità di emissioni che il pianeta può tollerare senza superare la soglia critica di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali. Per scongiurare questo scenario è necessario interrompere tutte le espansioni ed esplorazioni estrattive, ma è palese che le aziende fossili non abbiano alcuna intenzione di lasciare questi giacimenti dove sono. Mentre con una mano finanziano progetti rinnovabili e campagne di comunicazione che rassicurino l’opinione pubblica riguardo al loro impegno nella transizione verde, con l’altra investono nello stesso sistema che dicono di voler cambiare. Nello specifico, le dieci maggiori compagnie progettano di spendere oltre 100 milioni di dollari al giorno per i prossimi dieci anni nel tentativo di sfruttare pozzi di petrolio e riserve di gas che, se davvero si volesse arginare la crisi climatica, dovrebbero invece essere lasciate intonse.

Al momento, già il 60% di questi progetti è stato avviato, e non ci vuole una scienza per immaginare che aziende come ExxonMobil non abbiano alcuna intenzione di tirare il freno. Non fosse altro perché avviare un progetto di estrazione comporta costi che devono essere ripagati: una volta avviati diventa molto svantaggioso rimettere i sigilli.

Ed è qui che i fili si annodano: per decarbonizzare la nostra economia è fondamentale ridurre le emissioni drasticamente; per ridurre le emissioni a sufficienza da scongiurare il superamento degli 1,5 gradi è fondamentale mantenere sottoterra almeno il 60% del gas e del petrolio esistenti e il 90% del carbone; per mantenere sottoterra questa quota di combustibili fossili, le aziende del comparto petrolifero dovranno rinunciare a miliardi di dollari di profitti.

Questo significa che quando un’azienda fossile annuncia che intende sfruttare economicamente i propri giacimenti per finanziare una transizione efficace, quell’azienda sta probabilmente mentendo.

Una causa climatica d’importanza mondiale

Intanto, mentre ExxonMobil si appresta ad avviare il suo quinto progetto in Guyana – un impianto di estrazione che non inizierà a produrre petrolio prima del 2027 – c’è chi sta lottando a suon di carte bollate per impedire alle aziende petrolifere di trasformare lo stato sudamericano in una bomba di carbonio. Negli ultimi tre anni, Melinda Janki, un’avvocata guyanese specializzata in diritto ambientale, ha presentato sei cause legali contro il colosso petrolifero americano, di cui una ha già avuto esito positivo, riducendo i permessi ambientali per le attività di ExxonMobil sul territorio nazionali s da 23 a 5 anni. Ma la causa più ambiziosa è quella che vede Exxon sul banco degli imputati insieme al governo guyanese, accusati di aver avvallato progetti estrattivi che sono pericolosi per l’incolumità e la salute dei cittadini del paese.

Si tratta di una causa importante non solo per lo stato della Guyana, che tra l’altro è una delle nazioni più colpite dal riscaldamento globale (l’80% dei suoi 790.000 abitanti già vive in zone trincerate 1,8 metri al di sotto del livello dei mari), ma per tutto il pianeta. Se la Corte Suprema deciderà di dare ragione a Janki e ai firmatari, infatti, verrà riconosciuto ufficialmente come il nesso tra l’estrazione di gas e petrolio e l’aggravarsi della crisi climatica comporti una responsabilità legale da parte chi oggi si arricchisce impunemente grazie ai combustibili fossili; significherebbe certificare che il modello di business di un’azienda come ExxonMobil, che tuttora continua a investire cifre imponenti nell’avvio di nuovi progetti di estrazione, sia di fatto incompatibile con la lotta alla crisi climatica.

La lotta alla crisi climatica passa anche per le carte costituzionali

Attenzione, però, se la causa climatica guyanese rischia di fare la storia è perché troverà terreno fertile in una costituzione che stabilisce come inalienabile il diritto dei cittadini a vivere in un ambiente sano. Purtroppo, ben poche carte costituzionali oggi si dimostrano all’altezza di questa sfida. Recentemente, il Grantham Research Institute ha fatto una cernita delle costituzioni dei vari paesi e ha scoperto che in Sudamerica e in Africa le nazioni che presentano riferimenti costituzionali alla tutela degli ecosistemi sono rispettivamente il 45% e il 36%; per contro, in Europa e in Nord America queste percentuali precipitano. Fa eccezione l’Italia, che nel febbraio del 2022 ha approvato una riforma costituzionaleche prevede il riconoscimento dell’ambiente naturale come bene da proteggere a prescindere dall’utilità che possa avere per l’essere umano.

Negli ultimi 15 anni il costituzionalismo climatico ha fatto passi importanti, e oggi alcune nazioni possono vantare carte costituzionali contenenti espliciti riferimenti alle problematiche ambientali. Ma la strada è ancora lunga, considerando che ad oggi i paesi più “costituzionalmente attrezzati” sono anche tra i meno impattanti a livello di emissioni (nella top 10 figurano l’Algeria, la Bolivia, la Costa d’Avorio, Cuba, la Repubblica Dominicana, l’Ecuador, la Tailandia, la Tunisia, il Venezuela e il Vietnam). Inoltre, in molti casi i riferimenti costituzionali sono ancora troppo poco specifici per poter essere impugnati in modo efficace in sede legale.

Lo scorso settembre, in Cile è stata presentata una proposta di riforma costituzionale che puntava a fare dello stato sudamericano il faro del costituzionalismo climatico moderno. Il referendum proponeva un restyling completo della costituzione cilena che riconoscesse il ruolo della crisi climatica nei vari settori, richiedeva inoltre allo stato di cooperare internazionalmente per arginare l’emergenza climatica e disporre misure di adattamento, infine proponeva nuovi diritti per far sì che la tutela ambientale diventasse un cardine per tutto l’assetto giuridico. Nonostante il 92% dei cileni dichiari di voler considerare la questione ambientale come una priorità, però, il 62% ha votato contro.

La strada, come si diceva, è ancora lunga, eppure bisogna percorrerla alla svelta, se vogliamo contenere gli enormi danni che l’emergenza climatica sta già causando. Una delle priorità è disinnescare le bombe di carbonio disseminate per il globo; e se la comunità internazionale avesse seriamente intenzione di risolvere il problema, dovrebbero essere disinnescate per legge.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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