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Opinioni

Così le parole di Ignazio La Russa sull’astensione possono essere un boomerang e spingere il referendum

L’appello a non votare di La Russa e di alcuni esponenti di governo potrebbe avere come diretta conseguenza quello di polarizzare il dibattito e, paradossalmente, portare più persone alle urne per i referendum dell’8 e 9 giugno.
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Che il dibattito politico in Italia possa toccare vette surreali è cosa piuttosto nota. Così come è nota fin dall’inizio della legislatura la posizione per così dire peculiare di Ignazio La Russa, probabilmente il primo presidente del Senato a rivendicare apertamente la possibilità di continuare la propria militanza partitica, al di là di ogni prassi istituzionale. Dalla miscela di questi due elementi nasce la polemica sull’invito all’astensione ai referendum rivolto nel corso di un evento di Fratelli d’Italia, che è stata alimentata in particolare dai partiti di opposizione. Se La Russa ci ha messo abbondantemente del suo, con una posizione paradossale, “Io voterò, ma farò campagna perché la gente non vada” (prima parzialmente smentita, poi di nuovo rilanciata), al di là della confusione e delle strumentalizzazioni, la questione in sé è molto interessante. E si lega alle prime schermaglie seguite alle uscite di Tajani e di altri esponenti del governo sull’astensione l’8 e 9 giugno.

Proviamo ad andare con ordine, analizzando anche il modo in cui la discussione si sta sviluppando sui media, come facciamo sempre nella nostra Evening Review, la newsletter di Fanpage.it (ci si iscrive qui).

La prima questione è legata direttamente alle esternazioni di La Russa e al suo ruolo istituzionale. Alle perplessità di chi ritiene che il ruolo di seconda carica dello Stato debba imporre una certa “distanza e imparzialità”, lui ha sempre risposto di considerarsi “un uomo di partito”, spiegando di ritenere pretestuose le critiche in tal senso. Come ha spiegato un membro del suo staff a Il Giornale, infatti, nella sua lettura “l’obbligo di neutralità è circoscritto unicamente all’esercizio delle funzioni di presidente del Senato”, dunque “in una iniziativa promossa da FdI, sostenere che sia da seguire la posizione ufficiale del partito è non solo lecito ma quasi doveroso”.

È una risposta che lascia qualche perplessità. Perché se è vero che “a differenza del presidente della Repubblica, i presidenti del Senato restano regolarmente iscritti al partito e al gruppo parlamentare di appartenenza” e che “in concreto, nell'agenda del presidente non è previsto alcun appuntamento o attività di propaganda referendaria”, è pur vero che non esistono modi per determinare quando termini il ruolo istituzionale di chi rappresenta la seconda carica dello Stato. Non esiste cioè per un cittadino la possibilità di distinguere i due profili, specie se in appuntamenti pubblici. Detto in altre parole: La Russa è sempre un rappresentante dello Stato, non solo un esponente di partito. La pretesa di disaggregare le due voci lo colloca in una zona quantomeno ambigua.

E qui veniamo alla seconda questione, non meno dirimente. Sono legittimi gli appelli all’astensione, in particolare quando provengono da ambienti istituzionali?

Su Il Giornale, Pier Francesco Borgia ha pochi dubbi: “I costituzionalisti potrebbero, a questo punto, dividersi sull’opportunità che la seconda carica dello Stato contravvenga un’esortazione della prima carica dello Stato. (Mattarella, in qualche modo, aveva esortato a “non arrendersi a una democrazia a bassa intensità”, esortazione che a sinistra è stata vista come un invito alla partecipazione attiva anche ai referendum). I più rigorosi tra loro fanno già notare, però, che la nostra Costituzione non qualifica il voto come un dovere giuridico e che il nostro ordinamento non prevede al momento alcun tipo di sanzione per chi si astiene dall’esercitare il diritto di voto. E c’è chi, come il costituzionalista Salvatore Correi, ritiene la posizione di La Russa “sì inopportuna ma anche legittima”.

La spiegazione è però tagliata con l'accetta e mancano dettagli essenziali. Vitalba Azzollini su Pagella Politica qualche giorno fa aveva fornito un’analisi più precisa, che vale la pena riprendere in alcuni passaggi essenziali:

Così come è legittima l’astensione dal voto, è altrettanto lecito l’invito pubblico a non votare, poiché rientra nella più ampia libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. L’articolo 21 stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Questa libertà trova un limite nell’articolo 98 del già citato “Testo unico sulle leggi elettorali”: «Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o a indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000» (corsivi nostri). L’astensione al voto di cui parla questo articolo vale anche per i referendum abrogativi.

Ma che cosa significa «indurre all’astensione» mediante «abuso delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse»? […] n conto è la propaganda per l’astensionismo come manifestazione di opinione, un altro conto è un’azione organizzata volontariamente per forzare il libero convincimento dell’elettore.

Dunque, i titolari di una carica pubblica – come il ministro Tajani – che dichiarano di non voler votare a un referendum, o che si augurano il suo fallimento, o ancora che invitano ad astenersi dal voto, non abusano del loro potere violando la libertà di voto degli elettori.

Certo, come ricorda anche l'autrice, esiste un problema più ampio: quello dell'opportunità che un esponente dell'esecutivo (o delle istituzioni) faccia appelli per disincentivare gli elettori dal recarsi alle urne (anche nella considerazione che "in base alle norme sopra richiamate, la volontà della maggioranza dovrebbe formarsi nel procedimento deliberativo, e non al di fuori di esso"), ma in tutta sincerità abbiamo rinunciato da tempo ad aspettarci ragionamenti simili da questa classe politica.

Sul tempismo e sulle scelte del presidente del Senato ha qualche dubbio, più di natura strategica che altro, anche Marcello Sorgi su La Stampa, che introduce un altro tema: "È davvero strano che un uomo politico con una certa esperienza non si ricordi che il modo migliore per ottenere una vittoria dell’astensione, cioè far fallire un referendum, è quello di non parlarne, o parlarne il meno possibile [ … ] Perché allora La Russa, che sovente dimentica i doveri connessi a ricoprire la seconda carica dello Stato, si è lasciato andare in un esplicito richiamo agli elettori a disertare i seggi? Se anche gli è scappato, rischia di realizzare l’obiettivo contrario alle sue intenzioni, oppure, conoscendo le previsioni sull’affluenza, di aver attuato un goffo tentativo di mettere il cappello su quella che la destra considera una vittoria per sé e una sconfitta della sinistra promotrice del referendum su Jobs Act e cittadinanza dei migranti".

Addirittura Libero oggi pubblica un intervento per segnalare che “l’invito di La Russa è stato un boomerang” che rischia di innescare “le giuste reazioni dell’opposizione”. L’effetto paradossale delle parole di La Russa è spiegato anche da Ilvo Diamanti su La Repubblica:

“Al di là del merito, è importante perché sottolinea come l'astensione costituisca, anch'essa, una scelta di voto. Il voto voto di chi non non vota. Che ha diverse implicazioni, diversi significati. Due in particolare. In primo luogo, marca una scelta precisa. Il distacco da specifiche questioni, che si esprime non esprimendo la propria posizione. Ma prendendo le distanze. E, quindi, non partecipando alla formazione del consenso, neppure attraverso il dissenso, Senza, per questo, costruire un progetto e un soggetto comune. In secondo luogo, si tratta di una scelta che, comunque, non ha ragioni precise. O comunque, condivise. Come spiegano bene Vittorio Mete e Dario Tuorto, in un libro appena pubblicato dal Mulino, dal titolo, significativo: “Il partito che non c’è”. Perché, il partito degli astenuti non esiste. In quanto i non votanti non hanno compattezza e una coerenza interna. La loro composizione, al contrario, è mutevole. E cambia da un'elezione all'altra. Da una zona all'altra. Per questo non è possibile riassumerne e definirne l'identità. Perché tutto sono meno che identici, riconducibili a motivi e riferimenti comuni. Anche se è vero che da tempo il principale riferimento comune dei soggetti politici -partiti e leader – è il distacco. Porsi e imporsi contro gli altri. In questa occasione Ignazio La Russa ha proposto un motivo, personalizzato, per schierarsi, partecipando alla consultazione referendaria. E per questo ha tentato, in seguito, di rivedere la propria posizione. Per non fornire basi e ragioni comuni al voto di chi non vota”.

Insomma, la sensazione è che la partita del quorum sia appena cominciata. E, per quanto resti molto complessa da vincere, i promotori dei quesiti confidano di poter contare in altri involontari assist da parte della maggioranza.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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