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Opinioni

Guerra in Ucraina e spese militari: il regalo dell’opposizione Pd – M5s a Giorgia Meloni

Giorgia Meloni andrà in Europa con una linea chiara e granitica di sostegno all’Ucraina, malgrado la sua maggioranza sia divisa in modo imbarazzante. Il confronto con un’opposizione divisa o incerta su guerra e spese militari è impietoso.
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L’aiuto militare all'Ucraina è necessario per garantire la legittima difesa di una Nazione aggredita, in linea con la Carta delle Nazioni Unite […] L'Italia sta inviando all'Ucraina materiali e componenti già in suo possesso, che, per fortuna, noi non abbiamo necessità di utilizzare e che inviamo agli ucraini anche per prevenire la possibilità di doverli un giorno utilizzare noi. Infatti noi inviamo armi all'Ucraina anche per poter tenere la guerra lontana dal resto d'Europa e da casa nostra. Dunque, raccontare agli italiani che se non fornissimo le armi all'Ucraina si potrebbero aumentare le pensioni o si potrebbero tagliare le tasse è una menzogna che intendo chiamare con il suo nome”. È questo il passaggio più importante ed efficace dell’intero intervento parlamentare che Giorgia Meloni ha tenuto in vista di un Consiglio Europeo che si annuncia estremamente complesso. Dopo un periodo di grande difficoltà, stretta fra la pessima gestione politica del caso Cutro e le insidie della delega fiscale, la Presidente del Consiglio era attesa da una prova non semplice in Parlamento: rivendicare la linea italiana in Europa sul sostegno all’Ucraina, presentando come compatta una maggioranza divisa come mai prima.

Non c’è solo la nota posizione di Silvio Berlusconi, il quale da settimane si tiene ai margini del dibattito pubblico sulla guerra e su Putin. Ci sono anche i dubbi della Lega, che aumentano con l’allungarsi del conflitto, tanto che il capogruppo Romeo si spinge fino ad attaccare chi “pensa di sconfiggere militarmente la Russia” e a smentire un passaggio cruciale dell’intervento della Presidente del Consiglio: “Il problema non è il sostegno militare all'Ucraina ma una corsa ad armamenti sempre più potenti, con il rischio di un incidente da cui non si possa più tornare indietro. Siamo certi che una escalation del conflitto riuscirà a tenere lontana la guerra dall'Europa e dal nostro paese?

Insomma, che la maggioranza non sia esattamente granitica sul sostegno all’Ucraina sembrerebbe un dato di fatto. Fratture che però Meloni è riuscita in qualche modo a nascondere (non solo sul piano comunicativo), portando i suoi a votare in modo compatto una risoluzione che non lascia spazio a dubbi di sorta e prepara la strada ad altri due passaggi: il nuovo invio di armi e l’aumento della spesa militare italiana. When in trouble, go big: così la linea sull’Ucraina, scontata considerando gli impegni già presi e l’oggettiva necessità di cementare un rapporto coi partner europei che ora diventa essenziale, è servita anche come grimaldello per riaffermare le proprie prerogative di guida politica all’interno della maggioranza. Salvini e Berlusconi non hanno potuto far altro che incassare, limitandosi a qualche giochetto (tipo la presenza / assenza dei ministri leghisti sui banchi del governo), buono più per gli addetti ai lavori che come argomento di discussione pubblica.

Ma non solo, perché è stato abbastanza semplice per la leader di Fratelli d’Italia attaccare un’opposizione divisa e con le idee tutt’altro che chiare sulla guerra di Putin. Lo ha fatto certo con quella che è ormai la sua cifra stilistica, il vittimismo, come sempre abbinato tecniche retoriche di sicuro impatto: ha banalizzato alcune posizioni complesse, ha strumentalizzato critiche precise e ha utilizzato argomenti fantoccio per attribuire all’intera opposizione posizioni che invece sono marginali.

È riuscita a farlo, però, anche in ragione di un dato oggettivo: l’opposizione non ha una linea comune sull’Ucraina, ha posizioni inconciliabili su temi centrali di politica economica/energetica e in questo momento è lacerata da scontri interni e dalla lotta per il posizionamento su temi di grande rilevanza per l’opinione pubblica. Sul Consiglio Europeo, dunque anche sull’Ucraina, al Senato sono state presentate ben quattro mozioni dai banchi dell’opposizione (Pd, M5s, Avs e Terzo Polo). Tutte “precluse” come da regolamento a causa dell’approvazione della mozione della maggioranza. Alla Camera le mozioni sono state ugualmente quattro (quella del Terzo Polo aveva un parziale via libera dal governo) e dal voto sono emerse tutte le contraddizioni e le distanze tra i partiti che in teoria dovrebbero garantire l’alternative a Meloni. Per evitare contraccolpi (soprattutto mediatici), infatti, Pd e M5s hanno chiesto di votare le rispettive mozioni per parti separate, con il risultato di aumentare la confusione su linea e obiettivi. La mozione del Terzo Polo è invece stata appoggiata in parte dalla maggioranza e in parte dal Pd. Il dato di fondo è che non c'è una linea comune in Parlamento, probabilmente perché alcuni partiti non hanno neanche una linea "vera" sull'Ucraina.

Intendiamoci, la diversità di vedute può essere un valore aggiunto e sull’Ucraina il dibattito avrebbe già dovuto fare un salto di qualità. Ma non è difficile rilevare il carattere strumentale o speculativo di alcune posizioni emerse nel dibattito parlamentare di questi giorni: la sensazione è che si inseguano posizionamenti e oscillazioni dei sondaggi, più che coerenti principi ideologici o letture concrete e fattuali della situazione. Tante indicazioni sono fumose, altre sono ferme da mesi e non tengono conto di quanto il quadro complessivo sia mutato, di quali attori siano entrati in gioco e di che scenari si stiano preparando. Peraltro, lasciare la causa dell’Ucraina a Meloni (a onor del vero centrale anche nella proposta politica del Terzo Polo e di parte del Pd) significa indebolire implicitamente la posizione italiana nel quadro europeo, considerando la poca fiducia di cui può godere un esecutivo i cui azionisti principali sono “l’amico di sempre” di Vladimir Putin e chi andava nei consessi istituzionali indossando magliette con il volto del leader russo.

Sulle spese militari, infine, Giorgia Meloni ha gioco facile. Nel rivendicare la volontà di riattivare un processo di riarmo, non solo va incontro alle richieste di tutta la sua maggioranza, ma può anche rinfacciare a Conte di aver fatto lo stesso negli anni in cui è stato a Palazzo Chigi. E, soprattutto, può giovarsi della timidezza con cui il Partito democratico ha affrontato la questione negli ultimi anni, forse decenni. I democratici hanno sempre balbettato tra una generica tensione al disarmo e la volontà di rispettare gli impegni presi con la Nato; quando sono stati al governo hanno ratificato o preso accordi che estendevano o confermavano le spese militari. Semplicemente, il Pd non è mai stato credibile e Schlein dovrà faticare parecchio se davvero ha intenzione di cambiare il posizionamento sul tema.

Su pacifismo e antimilitarismo, per farla breve, Pd e M5s sono tacciabili di ipocrisia e doppiopesismo, avendo per anni marginalizzato istanze più radicali (e sempre sottorappresentate in Parlamento) che chiedevano un ripensamento complessivo sulle spese militari e una revisione delle priorità di azione dei governo. In questo contesto, ancora una volta la nettezza di Meloni ha avuto buon gioco.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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