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Ruby, si è dimesso Tranfa, il giudice che voleva condannare Berlusconi

La premier in segno di protesta contro la decisione del collegio della Corte d’Appello di Milano di assolvere l’ex premier dalle imputazioni di concussione e prostituzione minorile.
A cura di Biagio Chiariello
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Enrico Tranfa (al centro)
Enrico Tranfa (al centro)

Enrico Tranfa, presidente del collegio della Corte d'Appello di Milano nel processo, si è dimesso dalla magistratura. Una decisione presa come forma di protesta alla decisione maturata dal suo collegio di assolvere l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalle imputazioni di concussione e prostituzione minorile che in primo grado avevano invece stabilito la condanna a 7 anni di reclusione nell’ambito del Processo Ruby. E’ il Corriere della Sera a riportare la notizia, sottolineando come il sia la prima volta che accade nella storia della magistratura italiana. Tranfa, dopo 39 anni, la scia la toga con 15 mesi di anticipo sul previsto. “Un gesto di protesta muto, non accompagnato da alcuna spiegazione formale al Csm e agli uffici giudiziari”, scrivono Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella.

Le dimissioni di Tranfa

Tranfa si è dimesso immediatamente dopo aver firmato ieri mattina le 330 pagine della motivazioni della sentenza d’appello Berlusconi-Ruby, frutto della camera di consiglio del 18 luglio scorso e dei mesi di confronto con i colleghi Ketty Locurto e Alberto Puccinelli. I giudici hanno confermato il contesto in cui si tenevano i festini nelle residenze private dell’ex, quando fra le invitate e per "otto volte in tutto" c'era anche Karima El Mahroug: non "cene eleganti", ma "attività prostitutiva" con "intrattenimenti a sfondo sessuale" caratterizzati dalla "sfrontata disinibizione delle ragazze", dalla "ostentazione di nudità" e dalla "disponibilità a strusciamenti, palpeggiamenti" e con "ingenti somme di denaro in contante" e "gioielli consegnati da Berlusconi alle ragazze". Non è stato provato, invece, che l’ex Cavaliere fosse a conoscenza della minore età di Ruby, così come non è provato che l'allora Presidente del Consiglio, "preoccupato" del rischio di "rivelazioni compromettenti" su quanto accadeva a Villa San Martino, abbia minacciato o intimidito i funzionari di polizia quando telefonò alla Questura di Milano per ottenere il rilascio della giovane marocchina.

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