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L’immigrazione aiuta l’economia, è un dato di fatto

“Nella maggior parte dei casi gli immigrati contribuiscono in maniera significativa alla crescita economica”, spiega Giovanni Peri uno dei massimi esperti in materia.
A cura di Redazione
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L'immigrazione ha un impatto benefico sull'economia statunitense e non solo. E a dimostrarlo sono gli studi condotti da Giovanni Peri uno dei massimi esperti in materia, curiosamente italiano e docente presso l'Università della California.

«L’aspetto del contributo economico degli immigrati è cruciale. La mia ricerca è diventata importante per avere dimostrato che nella maggior parte dei casi gli immigrati contribuiscono in maniera significativa alla crescita economica. Negli Stati Uniti hanno contribuito a creare imprese, a fornire competenze professionali e a offrire lavoro sul mercato americano, necessario a far crescere le imprese, generando moltiplicatori locali della crescita. Molti dei miei studi mostrano come gli immigrati in Usa contribuiscono ad aumentare (e non riducono, come alcuni populisti sostengono) i salari e l’occupazione di americani. Bisogna ricordare infatti che negli Usa ci sono 43 milioni di immigrati, cioè il 13% della popolazione».

Parola dello studioso italiano che negli Usa è giunto per un dottorato in Economia alla Barkley e da lì non si è più allontanato attratto «dalla ricchezza della ricerca e dal mondo accademico» e dalla California «uno stato in cui un terzo della popolazione e’ straniera e dove le idee circolano libere e innovative». Stando ai dati rilevati dal docente «nel 2016 in USA il 40% dei lavoratori manuali senza titolo di scuole medie superiori era immigrato e anche il 40 % dei dottori di ricerca in scienza e tecnologia lo erano. Viceversa, solo il 12-13% di diplomati in posizioni intermedie erano stranieri».

Le aspettative professionali per chi arriva da un paese straniero dipendono in gran parte dal grado di istruzione: «Tra coloro che arrivano negli Usa con un titolo di studio universitario o per ottenerlo, di solito il futuro e’ molto promettente – spiega Peri – per coloro invece che arrivano senza titolo di studio e iniziano in lavori manuali e poco remunerati, invece, le prospettive non sono cosi’ rosee ma la maggior parte riesce comunque a ottenere un reddito che gli consente di vivere». Un futuro decisamente migliore sembra essere invece assicurato per la seconda generazione degli immigrati che tendenzialmente «ha molto successo e rapidamente converge al tenore di vita dell’americano medio». Un discorso che chiama in causa i dreamers (cioè i figli di immigrati giunti negli Usa in tenera età) il cui programma di protezione introdotto dall'amministrazione Obama, il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals) rischia ora di essere messo al bando dalla presidenza Trump. «I giovani che godono di questo programma di protezione (Daca) sono un minuscolo sottogruppo della ‘categoria' immigrati. Sono ragazzi nati all’estero, arrivati negli Usa prima dei 15 anni senza documenti e che hanno studiato e ottenuto un diploma qui. Si pensa che siano 1.2 milioni le persone che possono beneficiare del Daca e che di questi solo 800,000 si siano iscritti al programma che in sostanza li protegge dalla deportazione». L'impatto di una loro eventuale espulsione spiega Peri «in aggregato – cioè se si considera l'intera forza lavoro su cui può contare il paese – sarà minimo, eppure in alcune aree della California e del Texas dove questi sono concentrati gli effetti potranno essere più rilevanti». Netta la bocciatura dello studioso nei riguardi delle scelte prospettate dal presidente Donald Trump: «Le politiche restrittive e populiste in termini di immigrazione dell'attuale amministrazione danneggeranno la crescita economica e limiteranno la creatività, l'innovazione e la scienza negli Usa».

A cura di Marianna D'Alessio

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