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Guerra in Iraq, l’avanzata delle forze jihadiste frutto dei calcoli (errati) degli Usa

Iraq, Siria, Libano. Queste le nazioni dove i miliziani dell’auto proclamato califfato Islamico combattono in nome della guerra santa e del loro leader Abu Bakr al Baghdadi. La battaglia dell’Is è iniziata, tuttavia, più di un anno fa in Siria per abbattere il regime di Bashar al Assad e favorire gli interessi occidentali.
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Il bombardamento americano di Erbil, nel Nord dell'Iraq, apre un nuovo capitolo nella travagliata storia del Medioriente. A circa tre anni di distanza dal ritiro delle truppe di terra, il Presidente Usa Barak Obama torna ad imporre l'uso della forza militare nel paese devastato da anni di violenze, guerre civili e invasioni straniere.
Nelle scorse ore l'invio di droni e caccia F-18 Hornet, tutti decollati dalla portaerei G. H. Bush che incrocia nelle acque del golfo Persico, hanno fatto tornare la mente ai primi attacchi voluti da Bush padre contro il Raìs Saddam Hussein, ex grande alleato di Washington diventato poi l'icona del male degli anni Zero.

Chi sono le vittime delle violenze jihadiste

Per ora, riportano le cronache, sono state colpite attraverso i radi aerei alcune postazioni mobili dei militanti dell'Is (lo Stato Islamico, noto anche con i nomi di Isis e Isil), attestate alle porte dell'enclav kurda di Erbil zona dove risiede la popolazione dei Yezidis, minoranza kurda dell'Iraq. La capitale della regione Sinjar invece è già caduta nelle mane dei militanti dell'Is così come la città di Mosul e soprattutto la sua diga, centro vitale per migliaia di persone. Chi controlla la diga ha il potere sia di tagliare i rifornimenti idrici ad una vasta fascia della popolazione, implicando conseguenze drammatiche e immediate, sia di operare al contrario inondando la regione e mettendo a rischio di vita i residenti.

Al momento, secondo fonti ufficiali irachene, sono circa 50mila le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case a causa dell'avanzata delle milizie di al Baghdadi. Gli Yezidis rifugiati sul monte Sinjar per sfuggire ai militanti sunniti, corrono il doppio rischio di essere uccisi dai guerriglieri avversari durante gli scontri o di morire di stenti durante l'assedio.

La decisione di Barack Obama

E proprio per evitare che tale scenario drammatico possa mietere altre vittime, rispetto alle già numerose decedute dall'arrivo delle milizie dell'Is nella regione, il numero uno della Casa Bianca ha dato il via libera da una parte all'intervento di forza, attraverso i bombardamenti, e dall'altro all'invio di generi di prima necessità da far paracadutare sulle zone sotto assedio.

Il Presidente Obama ha ribadito che ogni opzione d'intervento di terra è da escludersi e che l'utilizzo dell'aviazione avviene sia per motivi umanitari che per tutelare la vita di cittadini e alleati statunitensi presenti nella zona posta sotto assedio (è bene ricordare, tuttavia, che fino a poco prima dei raid anche l'ipotesi di bombardare i militanti jihadisti era stata esclusa dai vertici del Pentagono).

La luce verde data alle operazioni degli F-18 Hornet della Us Navy e dei C-17 (mastodontici aerei cargo, da cui vengono lanciati i viveri e i medicinali), aprono la strada alle perplessita sulla legittimità politica e giuridica dell'intervento.

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Gli Usa hanno deciso, in modo unilaterale e senza neanche attendere l'intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di bombardare una nazione straniera con un governo in carica, seppur più dal punto di vista formale che pratico. Certo la crisi umanitaria è evidente ed è ugualmente chiara la necessità di intervenire a strettissimo giro per salvare la popolazione inerme e sotto attacco così come è necessario evitare le lungaggini diplomatiche e burocratiche che hanno troppo spesso caratterizzato il modus operandi dell'Onu. Tuttavia è lecito chiedersi come mai lo stesso metro di giudizio non sia stato utilizzato in altri scenari, tanto per fare qualche esempio a Gaza o nell'Ucraina Orientale dove le popolazioni sono ugualmente soggette a violenze e massacri.

Ma a colpire non è solo il differente metro di giudizio utilizzato sui vari scenari. È impossibile non ricordare come anche nelle precedenti occasioni, proprio in Iraq così come in altri Stati quali la Libia, i vari Presidenti Usa abbiano iniziato sempre le azioni militari con “operazioni mirate” di bombardamento aereo. Azioni che, nel tempo, hanno dimostrato non solo di essere inefficaci in termini pratici, ovvero proteggere le popolazioni sotto assedio, ma hanno portato sempre al collasso delle realtà nazionali in cui sono entrati in azione i jet.

La strategia Usa

Il cosiddetto “macello iracheno” è la prova più lampante di come questa strategia militare non produca risultati di sorta. Abu Bakr Al Baghdadi, secondo quanto rivelato settimane fa dagli archivi Snowden, è stato istruito e preparato alla “guerra santa” proprio dai servizi occidentali (Cia e MI6) e dal Mossad (Israele) per contribuire a destabilizzare la zona irachena e sottrarre potere all'Iran sempre più presente a Baghdad. Secondo quanto rivelato dagli archivi la “creazione” di al Baghdadi rientrerebbe nella teoria del nido di calabroni (in inglese: hornet's nest), ovvero creare tanti gruppi che destabilizzino l'area geografica attorno ad Israele al fine di dividere i potenziali nemici e renderli così più gestibili. Armando una volta gli uni una volta gli altri, e magari spingere inconsapevolmente i due o più gruppi a combattersi reciprocamente, così da far diminuire il potenziale operativo delle cellule presenti in Medioriente. Una sorta, per essere sintetici, del sempre verde motto latino: divide et impera.

Quando nasce la milizia dell'Is

È utile ricordare che l'Is è entrato in azione per la prima volta in Siria con l'obiettivo di contrastare e poi rovesciare il regime di Bashar al Assad con l'obiettivo, non dichiarato, di colpire uno dei più grandi alleati di Iran e Russia. L'operazione siriana, tuttavia, non ha portato i risultati sperati. Se, da una parte Assad è sempre saldo al potere – grazie soprattutto alla Russia che ha chiarito che non avrebbe tollerato l'ennesima aggressione americana in quello che considera uno stato amico –, il paese è ancora spaccato a metà e la popolazione è martoriata dalla lunga e sanguinosa guerra civile (si ricordi il gran numero di profughi siriani che hanno dovuto abbandonare il proprio paese per recarsi in l'Europa).

Dopo aver creato un'importante roccaforte in Sira, l'Is di al Baghdadi ha volto lo sguardo e le armi – molte di queste di provenienza Nordamericana – verso l'Iraq dove, grazie anche all'ottima preparazione militare dei suoi componenti, ha in poco tempo messo in fuga l'esercito iracheno in numerose zone del Paese. Nelle scorse settimane, inoltre, l'Is ha aperto un altro fronte in Libano, conquistando nell'area settentrionale alcuni villaggi e la cittadina di Arsal ampliando così il numero di paesi invischiati nei combattimenti contro le milizie autoproclamatesi jihadiste.

La decisione di Obama, dunque, d'intervenire militarmente in Iraq per quanto possa essere condivisa dal punto di vista umanitario mette in evidenza, ancora una volta, sia la volontà di continuare a mantenere instabile quella parte di mondo (altrimenti si potrebbe parlare apertamente di incapacità conclamata da parte degli strateghi di Washington di imparare persino dai propri errori del recente passato), sia di continuare ad armare formazioni estremiste – come d'altronde già fatto con Bin Laden e quindi al Qaeda –, che dopo aver acquisito tecniche di combattimento ed armamenti si ritorcono contro gli ex alleati a stelle strisce. In tutto questo sono sempre le popolazioni locali a rimetterci, in termini di vite umane e sofferenze, per quanto viene deciso freddamente a migliaia di chilometri di distanza.

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