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Giacomo Furia, la caricatura dei buoni sentimenti

Emblema dei film comici del secondo dopoguerra, apparteneva ad una leva di attori teatrali napoletani che hanno prestato la loro mimica facciale e la sagacia espressiva all’affermazione del cinema italiano come fenomeno commerciale.
A cura di Marcello Ravveduto
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Giacomo Furia.
Giacomo Furia.

Aveva novant’anni e una carriera da caratterista di lusso, spalla di Totò in ben quindici film. Aveva cominciato nella compagnia di Eduardo conosciuto grazie al fratello Peppino con cui era entrato in contatto per aver dato ripetizioni di matematica al figlio Luigi. Tutti lo ricordiamo per la sua andatura oscillante da orso Yoghi nell’”Oro di Napoli”, marito cornuto, mentre con la moglie, una Sophia Loren dalla bellezza folgorante e furba come una faina, va alla ricerca di un anello di brillanti avventatamente perduto.

Negli ultimi anni si lamentava di essere stato dimenticato e che nessun cineasta cercava un attore anziano con le sue caratteristiche. Salemme, in “No Problem”, lo aveva voluto nel cast per interpretare il ruolo di Galeazzo, spasimante della madre ottantenne (Anna Proclamer) di Arturo, il protagonista. Ma andando indietro nel tempo come non si può ricordare il favoloso Cardone, l’artista de “La banda degli onesti”. Ossessionato dalla figura della mamma, con cui vive, ha una paura terribile di commettere un peccato mortale: «Io – dice – la notte voglio dormire».

Totò e Peppino cercano di convincerlo ad accettare “la proposta” facendo leva sulle sue difficoltà: ha appena ricevuto dal proprietario di casa un intimo di sfratto, da cui scaturisce battuta fulminante del principe della risata: «Cardone l’intimo non vi rode?». Accettata l’idea, sarà lui a spingere gli altri a “ballare” con una di quelle frasi demenziali che sono il sale della commedia dell’arte all’italiana: «Nei confronti della legge siamo apposto, anche la carta è autentica; tutt’al più può essere definito un reato a responsabilità limitata».

Eppure, come ogni artista napoletano della sua generazione, considerava l’essere stato nella compagnia di Eduardo il massimo degli onori: «per me è stato come andare all' università del teatro». In “Napoli milionaria” aveva interpretato “Peppe ‘o cric”, il ladro di pneumatici che porta sulla cattiva strada il figlio di Gennaro Iovine, Amedeo. Un rapporto, quello con Eduardo, che si deteriorerà a causa della sua scelta di passare nella compagnia del fratello Peppino. Da allora non si sono più parlati. Anni dopo Sophia Loren, ha ricordato nel 2012, si mise in testa di farli incontrare e organizzò una cena con “il Maestro”, anche se lui continuava a ripeterle che non sarebbe mai andato all’appuntamento per una questione di principio. E, infatti, così fu.

C’è un altro episodio che in pochi sanno risalente agli anni Ottanta, quando lavorava allo stabile di Catania con Turi Ferro, prima nel “Berretto a sonagli” di Pirandello, poi nell'”Ultima violenza” di Pippo Fava. Ferro interpretava un giudice e Furia, per la prima volta nella sua carriera, un personaggio negativo ma carismatico, ovvero Raffaele Cutolo. Ad un certo punto nel copione era prevista una tirata del camorrista contro il magistrato, incentrata sugli affetti familiari. Il pubblico in sala scoppiava puntualmente in un applauso liberatorio. Una sera, al termine dell’ennesima rappresentazione, Turi Ferro si arrabbiò e gli disse: «Tu fai il camorrista, l'applauso non lo devi prendere». Ma quale attore rinuncia a un applauso? La risposta fu pronta e sagace, da vecchio lupo del palcoscenico: «Facciamo così, dopo l'applauso tu, che sei il presidente del Tribunale, ti rivolgi al pubblico e dici: "Ma allora non avete capito proprio niente, quest'uomo è un criminale, vi ha imbrogliato!"».

Ha girato ben centoquarantacinque film tra il 1948 e il 2008, con una media superiore di due film all’anno. Un ritmo frenetico determinato soprattutto dalle sue numerose partecipazioni ai film di Totò: «…erano film che si giravano in venti giorni, anche meno. I produttori avevano interesse a girarli nel minor tempo possibile e a sfornarli uno appresso all'altro. Il “Medico dei pazzi” lo girammo in dodici giorni addirittura. Ma bisogna tener conto del fatto che Totò arrivava sul set verso le tre e finiva verso le otto, non c'era molto tempo. Qualche volta non sono neppure sicuro se in un certo film c'ero o non c'ero, per certi film ho lavorato un giorno, due giorni, anche tre: si dimentica, non si può dire ho fatto un film, ma ho fatto una cosa».

Con Giacomo Furia muore l’ultimo simbolo del cinema comico e di buoni sentimenti del Novecento italiano. Opere in cui i personaggi erano caricature del presente, mostrando i tic di una società in rapido mutamento: la smania di arricchirsi e di partecipare al benessere collettivo, la perdita di alcuni valori della civiltà rurale, il profilarsi di una società egoistica e consumistica, la satira pungente contro i partiti politici e le ambizioni dei parvenu del Miracolo economico.

Muore anche, per certi versi, una scuola di attori teatrali, di grande presenza scenica, divenuti celebri grazie a film di grande impatto commerciale che avevano il merito di essere un momento di riflessione e di svago collettivo nell’Italia democratica del secondo dopoguerra, alla ricerca di una nuova identità nazionale. Furia, come altri, era uno di quei personaggi minori che assumevano un ruolo strategico nello snodo narrativo degli eventi, sia alleggerendo la tensione della trama, sia calcando gli aspetti paradossali di una società civile ancorata al mito degli “Italiani brava gente”. La sua non era una maschera adattabile al film di turno, era piuttosto un personaggio definito – bonaccione, simpatico, tontolone – al quale si affidava il compito di conquistare lo spettatore distraendolo, per un istante, dall’attenzione riservata al protagonista.

Il caricaturista di canovaccio ancora oggi esiste con punte di eccellenza, come Antonio Catania e Giuseppe Battiston, che danno continuità al mestiere. Il Paese e il mercato cinematografico, però, non sono più quelli in cui si è affermato Giacomo Furia. L’immagine partenopea non è più l’”Oro di Napoli” ma il gorgo della globalizzazione in cui non c’è posto per un mite come Cardone.

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