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Dal vinile a Spotify, la musica è cambiata

L’industria discografica sta vivendo da anni una profonda crisi a legata alla rivoluzione tecnologica. Ma le piattaforme di streaming a pagamento paiono consentire un futuro più roseo di quanto ci si potesse attendere finora.
A cura di Luca Spoldi
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C’era una volta il vinile, poi è arrivato il Cd, poi la musica si è digitalizzata e la sua fruizione si è gradualmente scollegata all’idea, ormai “arcana” del disco mentre i ricevi delle major discografiche mondiali andavano scemando dai quasi 30 miliardi di dollari di fine XX secolo a meno di 10 miliardi di dollari attuali. La morte della musica come business? Non secondo gli analisti di Credit Suisse che in un report (ovviamente digitale) notano come se la musica è “la storia dimenticata di crescita dei contenuti nel settore dei media globali” e se è ormai chiaro a tutti che “la proprietà dei contenuti IP è l’unica parte “indistruttibile” della catena di valore mediatico”, per l’industria musicale (e quindi per gli artisti) può esserci un futuro e questo futuro è sempre più legato a doppio filo alla musica fruita in streaming, sul modello di servizi come Spotify per intenderci.

Finora l’attenzione degli investitori “si è rivolta principalmente ai (contenuti) video, vale a dire per la televisione e il cinema”, in parte “perché sembra che i proprietari di contenuti musicali IP (etichette discografiche ed editori musicali) abbiano ancora di fronte molti anni per completare la migrazione dal supporto fisico ai nuovi formati digitali e appaiono in posizione di debolezza per controllare l’economia della distribuzione digitale dato che attualmente possono contare su un unico aggregatore digitale, vale a dire la Apple”. Ma “un cambiamento importante nel consumo di musica è in corso – l’emergere dei servizi di musica in streaming a pagamento – che potrà migliorare notevolmente la posizione competitiva e la redditività delle tre rimanenti major discografiche” (facenti capo ai gruppi Sony, Vivendi e Warner).

Anzi, secondo gli esperti svizzeri le piattaforme di streaming a pagamento come Spotify, Deezer e Beats Music “stanno già trasformando l’industria musicale. Gli ultimi dati di settore mostrano questi servizi sono cresciuti da zero nel 2008 a 1,1 miliardi di dollari di ricavi nel 2013”. “Prevediamo – aggiungono gli analisti – che le due piattaforme più grandi, Spotify e Deezer, avessero a fine 2013 12 milioni di abbonati a livello globale, che riteniamo dovrebbero salire a 20 milioni entro la fine del 2014”. Fornendo un accesso “a domanda” alla musica piuttosto che attraverso il tradizionale modello “à la carte”di Cd fisici o download digitali, i servizi di streaming a pagamento “sono ben posizionati per generare un sostanziale valore aggiunto per l’industria” musicale, sostanzialmente attraverso tre modalità.

Anzitutto un sottoscrittore-tipo di servizi come Spotify, Deezer o Beats Musicgenera 2,4 volte il reddito annuo (circa 120 dollari l’anno) che mediamente viene generato dall’acquisto di Cd musicali (circa 50 dollari l’anno)”. Inoltre i margini di profitto per l’industria discografica nel caso di brani fruiti tramite piattaforme di streaming a pagamento “sono significativamente più elevati di quelli derivati da acquisti di Cd fisici o download digitali” (il margine operativo lordo per le major, pari al 10% ossia mediamente 2,29 dollari a copia nel caso dei Cd fisici, sale al 34% o 8,5 dollari medi nel caso dei download e raggiunge il 40%, ossia 24 dollari, coi servizi di streaming), sicché una migrazione del consumo di musica digitale verso queste piattaforme consentirà di aumentare i profitti delle major discografiche.

Inoltre il modello di “accesso” ai contenuti musicali tramite piattaforme di streaming offre una maggiore utilità per il consumatore, come la scoperta di nuovi contenuti musicali a costo zero e l’accesso a playlist condivise. In questo modo secondo gli esperti “vi sono buone probabilità che questo modello incoraggi fino a circa il 50% dei consumatori dei mercati sviluppati che attualmente non pagano per la musica a farlo per la prima volta”. Se poi chiedete agli analisti di Credit Suisse chi potrà trarre maggiori benefici, accanto alle tre già ricordate major “superstiti” spunta il nome di Apple, che, guada caso, di recente ha acquisito proprio Beats Music. La casa della mela morsicata può vantare una base istallata di oltre 800 milioni di dispositivi hardware connessi ed oltre 500 milioni di utenti registrati sulla sua piattaforma, iTunes e questo può fornire una piattaforma distributiva globale e, cosa ancora più importante, “un sistema di pagamento praticamente senza attrito”.

Così “sembra logico attendersi che Apple integri Beats Music in un aggiornamento di software per la sua intera base istallata globale, più pacchetti di abbonamenti gratuiti o scontati per un certo periodo con l’arrivo di nuovi dispositivi nei negozi”. Insomma, il prossimo iPhone potrebbe solleticarvi più per la sua capacità di farvi sentire buona musica che non (soltanto) per la risoluzione dello schermo, la sua fotocamera o la funzione di telefono cellulare e secondo Credit Suisse questo farà bene sia ai conti di Cupertino sia all’intera industria musicale. Tanto che le previsioni parlano, grazie alla crescita dei ricavi da abbonamenti in straming, di ricavi complessivi che torneranno a salire dopo anni di continui cali, a partire dal 2016 e fino almeno al 2020, quando poi il mercato dovrebbe tornare a stabilizzarsi attorno ai 17,5-18 miliardi di dollari l’anno di ricavi, di cui buona parte (11,5-12 miliardi) derivanti dagli abbonamenti in streaming, una modesta parte dai download digitali (3,5 miliardi) e una piccola nicchia (1,6-1,7 miliardi) dalla vendita di Cd fisici per i “nostalgici” del disco.

Ultima notazione interessante: guardando ai nomi che compaiono nei grafici del report di Credit Suisse appare evidente come accanto a Apple, a Sony, a Vivendi e a Warner ci potrebbe essere ancora un quinto contendente da tener d’occhio: Amazon. Che oltre ad essere già presente nella distribuzione di supporti “fisici” sta guardando con sempre più interesse al nuovo business degli abbonamenti digitali. Per la creatura di Jeff Bezos sarebbe l'ennesimo cambio di pelle, per i suoi concorrenti forse una brutta gatta da pelare, specie se provasse a scatenare una guerra sui prezzi e sui margini. Ma come ben sanno gli studenti del primo anno di economia, quando al mondo restano così pochi contendenti è più facile che possano essere messe in atto altre strategie competitive che non un attacco frontale sui prezzi. In fondo se il giocattolo dovesse tornare a valere 18 miliardi di dollari l’anno, ci sarebbe spazio per tutti senza doversi fare la guerra all'ultimo abbonamento. O no?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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