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Opinioni

Che succede in casa Telecom Italia?

Si scalda l’atmosfera in casa Telecom Italia, dove il top management sembra pronto a ostacolare i presunti piani di Telefonica per cedere Tim Brasil. Ma i problemi, come spesso accade in Italia, vengono da lontano…
A cura di Luca Spoldi
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Piazza Affari riprende il rally di fine-inizio anno interrotto ieri, col Ftse Mib che a fine giornata segna +0,97%, al pari del Ftse Italia All-Share, mentre il Ftse Italia Star guadagna l’1,38%. A calamitare l’attenzione è oggi Telecom Italia (+6,92%), sui rumor di un possibile scontro tra top management e Telefonica in merito alla vendita di Tim Brasil. In sostanza, secondo quanto riportano indiscrezioni giornalistiche, il management del gruppo italiano, con l’appoggio dell’amministratore delegato Marco Patuano,  starebbero studiando delle contromosse per rendere più difficoltoso il piano di Telefonica (socio di controllo indiretto attraverso Telco, che esprime sei degli 11 consiglieri d’amministrazione dell’ex monopolista telefonico italiano) per accelerare la vendita e il successivo “spezzatino delle attività della controllata Tim Brasil.

Un’operazione controversa in quanto se la cessione della controllata brasiliana potrebbe portare nelle casse di Telecom Italia una decina di miliardi di euro, cifra che consentirebbe di abbattere significativamente l’indebitamento (al 30 settembre scorso pari a 36,06 miliardi di euro con una scadenza media di poco superiore ai 7 anni ed un costo del debito attorno al 5,4% annuo), dall’altra priverebbe il gruppo di un contributo importante in termini di fatturato e margini: nei primi nove mesi del 2013 a fronte di ricavi complessivi scesi a 20,389 miliardi (dai 22,061 miliardi dello stesso periodo del 2012) e di un Ebitda (margine operativo lordo) di 7,933 miliardi (dagli 8,86 miliardi di 12 mesi prima), il Brasile ha registrato un giro d’affari di 5,28 miliardi (dai 5,595 miliardi di un anno prima, complice anche il deprezzamento  del Real di circa il 14% nell’ultimo anno) e un Ebitda di 1,326 miliardi (da 1,46 miliardi).

Rinunciare al Brasile significherebbe dunque per il gruppo italiano rinunciare a un quarto del giro d’affari e a un 16,7% di Ebitda, accettando definitivamente il ruolo di operatore regionale (e dunque potenzialmente di “preda” nell’ottica di un futuro ulteriore consolidamento europeo che molti danno per probabile negli anni a venire), mentre per Telefonica, che pure quanto a debito non scherza ma che rivenderebbe rapidamente buona parte delle attività di Tim Brasil ad altri operatori presenti sul mercato brasiliano, potrebbe servire a tranquillizzare l’Antitrust del paese latino americano che da qualche settimana è tornato a chiedere esplicitamente al gruppo spagnolo di limitare la propria influenza sul mercato riducendo la sua partecipazione in Telecom Italia o persuadendo il gruppo italiano a cedere le attività di Tim Brasil ad altri operatori.

Il sospetto, sempre più forte, è che ci si trovi di fronte all’ennesimo caso di un conflitto d’interesse neppure troppo mascherato tra gli interessi di un singolo azionista rilevante (Telefonica in questo caso) e gli interessi del management e/o di tutti gli azionisti. Un discorso che in verità vale pari pari per molte altri “campioni” del capitalismo italiano da Rcs MediaGroup a Mps solo per ricordare un paio di altri casi. Come finirà non è facile dire, perché in tutti i casi sopra ricordati il peccato originale è rappresentato da un capitalismo povero di risorse in cui alcuni soggetti tentano (più o meno legittimamente) di mantenere intatte posizioni di predominio e relative rendite di posizione senza metter mano al portafoglio per mancanza di mezzi (o di volontà di utilizzare i propri capitali per preservare il controllo), senza che altri investitori nazionali (o non) riescano a farsi avanti senza il placet di "patti di controllo" sempre meno rappresentativi dell'intero capitale sociale (e ancor meno dell'intera platea degli stakeholder).

Una situazione che col tempo ha portato alla cessione pezzo a pezzo di alcuni “gioielli” del Made in Italy (o presunti tali) a concorrenti esteri o, in casi estremi, alla morte per inedia di aziende un tempo floride ma che non hanno saputo o potuto fare i necessari investimenti per rimanere competitive su mercati sempre più globali. La ricetta, ben nota ai miei lettori, non è quella di invocare barriere protettive, dazi o fantomatici ritorni alla lira, ma procedere nel giusto ordine e nei giusti tempi a una serie di riforme in grado di garantire l’accesso al credito ai più meritevoli, il riorientamento dell’economia nazionale verso la parte alta della catena del valore, l’apertura alla concorrenza di tutti i settori e le professioni ancora protette, la riduzione di balzelli burocratici e fiscali per ridare slancio alla crescita. A quel punto si potrà tornare ad assicurare un futuro alle nostre aziende, se saranno riuscite a sopravvivere fino ad allora. Per intanto il consiglio, soprattutto ai governi in carica pro tempora, è di tenere gli occhi aperti e cercare di salvare il salvabile senza fare troppi danni aggiuntivi se possibile.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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