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Lo sgombero dei rifugiati da Piazza Indipendenza

A tutte le unità! Pubblicate l’abbraccio! Pubblicate l’abbraccio!

Oggi è tutto un pullulare della carezza del “poliziotto buono” tesa a consolare la donna eritrea (ha un nome: Genet) in piazza Indipendenza. Ma la narrazione di quella foto diventa propaganda. E questo, anche questo, è inaccettabile.
A cura di Giulio Cavalli
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Diceva Joseph Pulitzer che "una stampa cinica e mercenaria crea un pubblico ignobile"e dentro quella parola "stampa" oggi ci stanno una più ampia gamma di mezzi che rinunciano al proprio ruolo preferendo riciclarsi in meri amplificatori emozionali al servizio della popolarità (così retrocessa da essere diventata sinonimo di viralità) e della narrazione più comoda (la chiamano "storytelling" ma è talmente bella così semplice, in italiano, "narrazione"). Così nel tempo delle parole che si sforzano di allinearsi alla freschezza dei mezzi che dovrebbero riuscire ad attraversare la loro scelta, insieme a quella delle immagini, diventa fondamentale per instillare l'imprinting: se racconto i fatti di Roma in piazza Indipendenza, ieri, con il getto d'acqua sparato in faccia alla donna disabile o se ripiego sulla foto della "carezza" (che non è una carezza, ci arriveremo) del poliziotto sulla faccia della rifugiata eritrea le cose cambiano. Eccome, se cambiano.

E la "carezza" sul viso di Genet – sì, si chiama Genet, quella donna. È incredibile l'effetto che fa chiamare le persone anche solo per nome, vero? – oggi maramaldeggia felice sulle prime pagine di siti e quotidiani con una moltiplicazione quasi sospetta, sfiorata da paradossali commenti sdraiati, quasi a volerci dire di non fidarsi di chi ha scritto delle violenze: convinti di espiare le mostruosità di ieri annegandoci in una melassa usata per coprire, fingendo di dolcificare. «Quella carezza ha reso orgoglioso mio figlio» è il titolo del Corriere della Sera che pubblica un'intervista a tutta pagina a N.G., "l'agente buono" (cit. dall'articolo) che racconta la soddisfazione di avere reso orgoglioso il figlio. Fermi tutti. Chiariamoci: il punto non è il gesto (nobile, apprezzabile) ma l'uso che ne viene fatto. Se a fianco fosse comparsa un'intervista a piena pagina a Genet, magari avremmo saputo di più di tutto il dolore e di tutte le vicissitudini che stanno dietro quel suo urlo disperato che sembra un quadro di Munch. Già. Perché la docile Genet è quella stessa donna che appare in un'altra foto (questa buttata in mezzo ad altre decine di foto nelle pagine interne o nelle gallerie per il web). Questa:

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"Ripartire da quella carezza", scrive in un (bel) articolo Eraldo Affinati per Repubblica. Certo. Ma vale la pena, forse, prima raccontarla quell'immagine e farlo non secondo la logica di un pigro suprematismo del "noi" e "loro" ma raccontarla con le parole di chi, anche oggi, sembra non avere la possibilità di trovare lo spazio per farlo. Che ne dice Genet di quel momento? Che lacrime sono le sue? O davvero ci basta riproporre il tutto nella telefonata intercorsa tra padre e figlio, italiani, dimenticandoci le dimensioni mondiali di un flusso che ieri per caso è passato da Roma a piazza Indipendenza ma che è lo stesso che affila le truppe austriache sui confini del Brennero, che sta scritto a Bruxelles negli accordi della Convenzione di Dublino, che imbarazza il Presidente della nazione più potente del mondo, che agita le pance di chi ieri ha fatto le barricate vicino a Piacenza per l'arrivo di qualche bambino straniero senza genitori o di altre decine di casi quotidiani?

Un'immagine sparata in prima pagina altrimenti diventa solo un assist alle propagande. Tutte. A chi dice sventolando una foto "vedete che tutto va ben" e anche a chi, come Sgarbi, scrive che quella carezza ("che sembra un quadro", ça va sans dire) è "uno schiaffo ai buonisti anti polizia" o ancora a chi, come Il Giornale, può scrivere "dalla carezza dell'agente ai complici dell'illegalità così la verità cambia volto". Se è vero che, lo scrive La Stampa, "la carezza dell'agente batte la violenza" allora forse sarebbe il caso chiarirci per bene sugli agitatori della violenza e sulle responsabilità. E far sì che il chiarimento abbia lo spazio dovuto e che sia scritto con tutto il coraggio possibile. Ripetere infinite volte l'immagine "buona" altrimenti diventa il metodo più facile per far apparire tutto il resto (gli idranti sparati in faccia alle donne e ai bambini, i poliziotti che si incitano contro "la feccia" e se la prendono con i giornalisti  -"portateveli a casa vostra", dicevano ieri, come un qualsiasi webete, ma in divisa – , il funzionario che vuole farli "sparire tutti" oltre che spaccargli un braccio) solo dei piccoli incidenti di percorso.

E questo, anche questo, è inaccettabile. Con permesso.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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