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Tutte le volte in cui un presidente della Repubblica ha detto “no”

Il diniego del presidente Sergio Mattarella non è un caso inedito nella storia repubblicana. Anche i presidenti Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano hanno opposto un fermo “no” quando è stata presentata loro la lista dei ministri.
A cura di Annalisa Cangemi
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Mattarella ha detto "no" all'economista Paolo Savona e indirettamente ha impedito che il governo giallo-verde, o più precisamente giallo-blu, vedesse la luce. La decisione ha portato le tensioni tra Quirinale e i due partiti coinvolti nella formazione dell'esecutivo Lega e M5S a un punto di rottura mai visto prima. Ma è la prima volta che una crisi di tale portata si è verificato nella storia della Repubblica? Il rifiuto del Capo dello Stato in questo caso è legato soprattutto a ragioni "ideologiche": l'economista non ha mai nascosto le sue posizioni anti-euro, e sebbene né Matteo Salvini né Luigi Di Maio avessero mai detto durante la campagna elettorale di voler portare il Paese fuori dalla moneta unica, e nonostante il presidente Mattarella abbia indicato una via d'uscita all'impasse, suggerendo di nominare al Mef Giancarlo Giorgetti, Lega e M5S si sono impuntati con un aut aut. Il Colle ha ritenuto che Savona non sarebbe stato adeguato per contrattare con Bruxelles, e avrebbe anzi innervosito i mercati, con contraccolpi per la nostra economia. Il veto è stato posto da Mattarella sull'euroscetticismo. La spaccatura e la conseguente deflagrazione sono state dirompenti per sorti degli italiani, che si troveranno un governo di "tecnici", guidato dall'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, o tra non molto ancora una volta alle urne.

Non è un episodio del tutto inedito, quello a cui abbiamo assistito ieri, ma è opportuno segnalare una differenza: il presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte non ha proposto a Sergio Mattarella un nome diverso, per eventualmente rimpiazzare Savona nella lista dei ministri. È facile ipotizzare che quest'assenza di alternative sia stata una calcolata mossa finale, e che in fondo conveniva, soprattutto a Matteo Salvini, brandire ancora una volta l'arma del voto. Se si possa o meno parlare di "impeachment" non è questa la sede per analizzarlo, ma quel che è certo è che il presidente della Repubblica si è mosso nell'alveo delle sue prerogative, perché la proposta di un ministro da parte del premier incaricato, non può essere in nessun caso vincolante. Vediamo quali sono gli altri casi in cui un Capo dello Stato ha affrontato una crisi istituzionale assimilabile a questa. L'articolo 92 della Costituzione dice testualmente: "Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri " e poi "Il presidente può dire di no per tutelare i principi quadro della Costituzione, scegliendo persone che diano una minima garanzia". Era stato lo stesso Luigi Di Maio pochi giorni fa a ratificarlo: "Sui ministri non c’è nessuna discussione in atto perché i ministri li sceglie il presidente della Repubblica".

Nel 1979 fu Sandro Pertini ha stoppare la nomina di Clelio Darida alla Difesa. In quel caso Francesco Cossiga lo sostituì con il Dc Attilio Ruffini, che rimase al governo per sette mesi. Darida è stato nominato ministro successivamente, dal 1980 al 1987, prima alla Grazia e Giustizia e poi alle Partecipazioni statali.

Un altro precedente vede come protagonista Oscar Luigi Scalfaro. Subito dopo la vittoria di Silvio Berlusconi con la neonata Forza Italia, nel 1994, si ebbe uno scontro tra presidente del Consiglio e Quirinale. Il presidente Scalfaro si oppose alla nomina di Cesare Previti, che di Berlusconi era l'avvocato, come titolare della Giustizia. Divenne Guardasigilli Alfredo Biondi. E poi Previti fu inquisito, processato e condannato in via definitiva per corruzione.

E ancora nel 2001, il presidente Carlo Azeglio Ciampi, trovò inopportuno che il leghista Roberto Maroni guidasse il dicastero della Giustizia. "Il veto veniva dal Quirinale – disse poi Umberto Bossi al Tg3 – perché Maroni ha due processi derivanti dal codice Rocco». Bossi parlava dei procedimenti contro l'allora Lega Nord, avviati dalla Procura di Verona: Maroni si era opposto alle perquisizioni nella sede del Carroccio. Il Colle riuscì a far prevalere il suo indirizzo, e alla Giustizia andò Roberto Castelli, mentre Maroni divenne ministro del Lavoro.

Più recentemente, nel 2014, il presidente era Giorgio Napolitano, impedì a Matteo Renzi di nominare alla giustizia il magistrato Nicola Gratteri, procuratore impoegnato nella lottta contro la ‘Ndrangheta. La motivazione del diniego fu che Gratteri era appunto un magistrato in servizio. Successivamente Gratteri, in un'intervista a Riccardo Iacona a "Presa Diretta", confermò di essere stato fino all’ultimo nell’elenco dei ministri. Subentrò allora Andrea Orlando.

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