Il Dottor Costa: “Aprii la bara di Simoncelli a casa sua. C’era un documento, mi riempì di gioia”

A 84 anni, Claudio Costa resta una leggenda della MotoGP. Il medico imolese che negli anni Settanta inventò la Clinica Mobile, rivoluzionando la sicurezza dei piloti, ha dedicato la vita a curare chi rischia tutto in pista. Ma nel suo lungo percorso c'è una ferita che non si è mai rimarginata: la morte di Marco Simoncelli, il 23 ottobre 2011 a Sepang.
Costa non era in Malesia quel giorno, e ne è convinto: se ci fosse stato, il destino del "Sic" sarebbe potuto essere diverso. Non per una questione medica, ma per qualcosa che lui chiama "superstizione profetica".

Il racconto del Dottor Costa: l'ultimo gesto per Marco Simoncelli
Un qualcosa di cui ha parlato anche in passato, ma questa volta ci ha aggiunto anche un ulteriore racconto relativamente a ciò che è avvenuto dopo, cioè quando il corpo del compianto pilota romagnolo ha fatto rientro in Italia e portato in casa Simoncelli prima dei funerali. Un gesto compiuto in silenzio, fuori da ogni protocollo, che sorprendentemente gli regalò un ultimo segno di serenità.

"Se avessi visto quell'asciugamano, avrei agito"
Ospite nel podcast The BSMT di Gianluca Gazzoli, il Dottor Costa ha infatti ripercorso quelle ore drammatiche: "La superstizione non è una debolezza ma una forza – ha spiegato – perché ti dà l'illusione di poter controllare una realtà che non è sempre favorevole all'uomo. Quando rasenta la profezia, diventa quasi un atto di fede".
Poi il ricordo del dettaglio che lo tormenta da anni: "Prima della gara in Malesia, Marco aveva in testa un asciugamano al contrario. Il padre lo bruciò, considerandolo un segnale sfavorevole. Io non ero a Sepang, ma se ci fossi stato e avessi visto quell'asciugamano, gli avrei detto che gli dei quel giorno non lo aiutavano per vincere, ma che la prossima gara a Valencia sarebbe stato lui il vincitore, e in futuro campione del mondo".

"Aprii la bara di Marco, doveva vederlo sua sorella"
Il racconto poi si sposta a Coriano, pochi giorni dopo la tragedia. Il corpo di Simoncelli era stato riportato in Italia, sigillato nella bara. Costa confessa di aver compiuto un gesto "non regolare":
"Ho aperto la bara in casa Simoncelli perché la sorella potesse vederlo. Era giusto che lo salutasse. Non si era irrigidito, segno che lo avevano dovuto muovere per sistemarlo nella cassa. Poi vidi un documento, la relazione dell'autopsia: nel capitolo farmacologico c'era scritto ‘no alcohol, no drugs'. Mi riempì di gioia, perché significava che Marco era rimasto un ragazzo pulito fino alla fine".
Per il Dottore, quel foglio era un ultimo segno di purezza: "Non so l'inglese, ma lessi quelle parole. Mi fecero bene al cuore. Vuol dire che Marco non ha mai tradito se stesso".
Il SIC è diventato simbolo di una generazione
Nel ricordo di Costa, Simoncelli non è soltanto il pilota spavaldo e generoso amato dai tifosi: "Amava la sua famiglia e ne aveva creata una seconda nel box, e un'altra ancora nella Clinica Mobile. Era uno di noi".
Per questo, anche dopo la tragedia, il Dottor Costa è convinto che qualcosa di bello sia nato da quel dolore: "La tragedia è devastante, ma può generare luce. Da quella perdita è nata la forza della sorella Martina e l'amore di una comunità che oggi continua a vedere in Marco un simbolo".

Un legame che non si spezza: "Marco è diventato uno di noi"
Oggi, quasi quattordici anni dopo, Claudio Costa continua a parlare di Simoncelli come di un figlio spirituale. La sua voce, mentre lo racconta, si incrina ma non perde lucidità: "Marco è diventato uno di noi. È qualcosa di più grande di un pilota. È un simbolo di coraggio e purezza. È parte di tutti noi che viviamo di moto e di passione". Un ricordo che non morirà mai.