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Vincenzo Nibali: “Pedinato e perquisito, ma sempre pulito. Andavamo alle gare come si andava in guerra”

Vincenzo Nibali parla del ciclismo dove lo “Squalo di Messina” ha dominato le scene per quasi 15 anni, pervaso ancora dalla piaga del doping: “Era ancora una fatto culturale ma detto ciò se non volevi non lo facevi”. Rivendicato la propria estraneità: “Possono testare le mie provette anche fra 100 anni… sempre a testa alta”
A cura di Alessio Pediglieri
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Vincenzo Nibali non ci sta a sentir parlare di "doping sistematico" sulla scia del semplicistico "così facevano tutti". Lo Squalo di Messina non lo ha mai fatto. Punto. A ribadirlo è stato lui stesso focalizzando l'attenzione su un ciclismo che ciclicamente viene piastrellato di casi epocali di doping, culminati negli oramai tristemente famosi casi di Lance Armstrong o di Jan Ullrich. Il campione siciliano ha perso tanto per colpa di avversari che facevano uso di sostanze illecite e attraverso scorciatoie per vincere tappe e corse, ma ribatte fermamente che c'era sempre una scelta: "Non è era un dovere, se volevi non ti dopavi. E io non l'ho mai fatto. Mi hanno pedinato, mi sono entrati in casa di nascosto. Non hanno mai trovato nulla. Perché una frase dei mei genitori me la porto scolpita nel cuore".

Una infanzia non semplice, nella Messina degli anni '80 trascorsa borderline, tra criminalità e una vita sana. Per Vincenzo Nibali non è stato facile scivolare dalla parte sbagliata con "compagni di scuola che si portavano la pistola nello zaino. Ero il classico ragazzino di strada" ricorda al Corriere. "Che poteva prendere anche una brutta via: attiravo guai come un parafulmine", in una quotidianità familiare più che difficile. "C'erano i pizzini che ti invitavano a pagare, la bottiglia di benzina fatta brillare dietro alla serranda, la casa messa a soqquadro come avvertimento", ricorda ancora sull'attività di famiglia, una cartoleria. Ma anche la salvezza della bici: "Iniziai a 12 anni, con mio padre e i suoi amici, capii che avrei voluto fare il ciclista".

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La famiglia e i suoi insegnamenti hanno salvato il Vincenzo Nibali non solo bambino. Anche di fronte agli altri pescecani della vita dei grandi, lo Squalo ha mostrato la sua forza su una sella ma ancor prima giù: "Una frase mi è rimasta dentro, dettami dai miei genitori quando decisi di correre e non tornare più a casa. Ricordati, vai in casa altrui, comportati bene. Se ti impongono scelte sbagliate torna e troverai sempre noi e un lavoro. Una frase decisiva". Che salverà Nibali dal Medioevo del ciclismo moderno, rappresentato dalla piaga del doping che anche nei suoi anni di gloria, nel primo ventennio del 2000 era presenza costante e inquietante: "Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto, visto che nei miei anni si parlava tanto di doping. Sì, certo era ancora un fatto culturale ma detto questo se non volevi, non ti dopavi".

A causa del doping, Vincenzo Nibali ha probabilmente perso tantissimo, rinunciando a vittorie meritate sui pedali e strappategli da avversari scorretti. "Si andava alle corse come si andasse in guerra", ricorda ancora in un clima dove lui, italiano, leader, campione, era preso spesso di mira: "Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina e controllato il telefono e sono sicuro che mi siano entrati anche in casa per trovare prove. Che non sono mai esistite. In quel periodo, noi ciclisti eravamo bersagli facili, ma mai nella vita mi sono dopato e né mai ho pensato di farlo. Possono testare le provette tra cent’anni. A testa alta, sempre".

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