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Claudio Chiappucci oggi: “Scalo lo Stelvio due volte in un giorno, recitavo la parte dello stupido”

A 60 anni compiuti El Diablo è sempre in fuga: schietto, leale, diretto. Come quando scattava sui pedali, anche oggi Claudio Chiappucci ai microfoni di Fanpage è sempre protagonista: “Pronto ad asfaltare se ce n’è bisogno. E chi vuole starmi dietro che ci provi, pagano tutti le conseguenze”.
A cura di Alessio Pediglieri
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"Non es un hombre, es un Diablo". Una frase che ha riscritto la storia del ciclismo per sempre. Quel Diablo, il Diavolo, altro non era che Claudio Chiappucci da Uboldo, in provincia di Varese che fece innamorare milioni di appassionati alla bicicletta e alla sua figura. Indimenticabile. Ancor oggi che el Diablo ha 60 anni compiuti ma non smette mai di essere un personaggio cercato, richiesto, voluto: "Soprattutto all'estero, anche se in Italia non mi posso lamentare. Ancora mi chiamano, mi cercano e sono felice". 

E così, ai microfoni di Fanpage.it, tra una scalata e l'altra ("Proprio oggi abbiamo fatto lo Stelvio per ben due volte, mica una passeggiatina") la proverbiale parlantina del Diablo torna ad essere affasciante per raccontare il ciclismo di ieri e quello di oggi, "che piace meno perché non vedo carisma e personalità. Colpa anche di una tecnologia che limita molto l'iniziativa". Sincero e schietto come sempre: "Ho dato tantissimo al ciclismo, io davo da mangiare al ciclismo". Senza mai guardare in faccia nessuno, sempre in fuga e pronto allo scatto come quando correva: "Se c'è da asfaltare qualcuno anche oggi lo faccio ancora. Senza problemi".

Iniziamo dalla fine: oggi Claudio Chiappucci cosa fa?
Mah, oggi nella mia giornata metto un po' di tutto, anche se il ciclismo resta una parte importante. Ancora mi chiamano, mi cercano e io sono felice. In questo momento sto collaborando in diverse situazioni, come ad esempio per un Tour operator per il quale accompagno i loro clienti e oggi è stata una giornata molto intensa. Abbiamo fatto per due volte lo Stelvio, ad esempio, mica una passeggiata qualsiasi. Ma mi piace moltissimo anche perché mi permette di mantenere una condizione fisica adeguata, star bene. Poi mi diverto ancora che è la cosa più importante perché la vivo come un proseguimento di quello che facevo quando ero impegnato ad allenarmi per le competizioni.

La bicicletta resta sempre il suo baricentro, a tal punto da essersi messo a disposizione anche per migliorare la sicurezza sulle strade.
Sì e non solo per i cosiddetti professionisti, anzi. Soprattutto per tutti coloro che utilizzano la bici per muoversi, dai cicloamatori alle persone comuni, soprattutto chi va in giro per le città o le strade dove corrono quotidianamente i maggiori pericoli. Il mio pensiero va a chi pedala, che poi abbia una Graziella o una bici da corsa non fa alcuna distinzione, resta il fatto che oggi la sicurezza stradale è un problema grave, di difficile soluzione: manca rispetto, c'è mancanza di cultura e di attenzione. Poter dare un contributo in ogni modo per me è importante, perché si deve arrivare ad un dunque e dare la possibilità a chi lo desidera di circolare in bici e anche a piedi con sempre meno rischi.

Anche perché poi si torna ciclicamente a parlare di tragedie che coinvolgono i ciclisti
Sì, come quella del povero Rebellin [investito da un camionista durante una seduta di allenamento su strada, ndr] o anche a persone comuni come è accaduto recentemente in una città importante come Milano [un 79enne ucciso da un furgone, ndr] e siamo ancora qui a domandarci come sia potuto accadere, quali siano state le dinamiche e i motivi. Non va più bene, non si può continuare così.

Oggi le manca l'adrenalina della corsa?
Io continuo a praticare il ciclismo di persona, pedalando, perché mi fa stare bene, perché fortunatamente sono ancora molto richiesto [sorride, ndr], sono ambassador di marchi importanti, la bicicletta mi tiene la giornata impegnata. Poi, mai dire mai, la mia porta è sempre stata aperta, io sono un battitore libero e disponibile ad ogni eventualità se arriva soprattutto dal mio mondo che conosco benissimo e in cui posso ancora dare molto. Quindi perché no: vedermi a commentare una corsa, ritornare sotto qualche veste diversa in strada potrebbe essere una possibilità.

Quando il giovane Claudio ha capito che la bicicletta sarebbe stata la sua vita?
Sinceramente? Non l'ho mai capito nemmeno io quando è scattata davvero la scintilla della bicicletta… Io ho sempre avuto una passione fortissima per tutti gli sport in generale, mi è sempre piaciuto praticarli e in realtà avevo iniziato con il calcio. Poi, sono finito alla bici così con naturalezza ma a calcio ad esempio mi divertivo molto.

In che ruolo giocava Chiappucci in squadra?
Beh, la risposta è semplice: nello stesso in cui mi sono ritrovato poi in bicicletta… ero un'ala, mi piaceva attaccare, correre, inventare. Ero già uno che spingeva in fascia, così come poi ho fatto sempre in corsa. Diciamo che potevo richiamare un Federico Chiesa, visto che tifo Juventus anche perché ha tantissimi miei cimeli storici nel suo Museo e questo per me è motivo di grande orgoglio. Ma un Chiesa dei tempi migliori, diciamo, come si era proposto quando era arrivato dalla Fiorentina.

Grande appassionato di sport e tifoso juventino: Chiappucci con Mister Lippi
Grande appassionato di sport e tifoso juventino: Chiappucci con Mister Lippi

Poi ad un certo punto, nacque El Diablo: ci racconta quell'aneddoto?
È un qualcosa che è nato così, spontaneamente, mentre ero in auge e capitò durante una gara che stavo correndo in Colombia. Si trattava del Clasico RCN, una corsa a tappe durissima e durante la diretta i commentatori colombiani che sono molto goliardici e inventivi, mi avevano preso d'affetto, così senza un reale motivo. E visto che ero riuscito a vincere anche delle tappe in salita, nacque il mito del Diablo perché per loro ero indiavolato sulla bici. Poi, una volta rientrato in Europa perché da lì a poco avrei dovuto affrontare il Lombardia, parlando con alcuni giornalisti raccontai quel particolare e altrettanto naturalmente da quel momento diventai per tutti El Diablo.

Che oramai è anche oggi il suo secondo nome.
Ma anche il primo ti dirò. Ancora oggi a 60 anni mi chiamano tutti solamente El Diablo. Se sento qualcuno dire "ciao Claudio", faccio fatica a capire che si stanno rivolgendo proprio a me. Il mio nome oramai non esiste più, posso serenamente cancellarlo.

E proprio come El Diablo lei si è fatto conoscere e amare: il segreto del suo successo?
Io mi sento un uomo di mille Paesi, mi ricordano con affetto ovunque anche se ad esempio mi sento particolarmente vicino alla Spagna, forse anche perché spesso mi identificavano per le fattezze come spagnolo mentre sono italianissimo. È un piacere sentire l'affetto ovunque, ancora adesso. Ad esempio in Francia io ho da vent'anni una Gran Fondo seguitissima, che porta il nome del Diablo e poi recentemente mi è stato dedicato un settore del pavé e anche questo è stato molto prestigioso e motivo di vero orgoglio per me, perché farsi amare dai francesi non è mai semplice per nessuno. Questo è ancora una volta la conferma che ovunque sia andato sono riuscito a lasciare un segno e un buon ricordo.

Ci sono stati anche momenti difficili, ha mai pagato il prezzo della sua proverbiale franchezza?
Ma sai, come in tutti gli aspetti della vita una persona ha sia pregi che difetti. Io ho sempre preferito essere come sono, cioè sincero, diretto, schietto. Non mi sono mai nascosto anche con le parole perché credo che sia giusto raccontare la verità, evitare le menzogne che poi tornano sempre a galla. Sia nei momenti positivi che nelle difficoltà sono rimasto sempre ciò che sono, un uomo e un atleta con dei valori precisi come la serietà e la sincerità.

Recentemente Mauro Vegni ai nostri microfoni ha sottolineato che nel ciclismo moderno mancano i campionissimi, come lei. Concorda?
Beh, può essere, però c'è anche da dire che poi ci si dimentica dei Chiappucci da chiamare al Giro pensando che possano dare una mano e un aiuto concreto ad un movimento che si conosce bene, per provare a capire cosa si potrebbe fare di buono insieme per il ciclismo. È un po' una bilancia da ricalibrare di volta in volta, perché quando torna comodo il mio nome viene fatto ma poi quando bisogna concretizzare, ci si rivolge ad altri…

Le dà fastidio?
Assolutamente no, io sorvolo, spingo e vado avanti. Sono stato sempre abituato ad asfaltare già quando ero in bici, e anche adesso non mi faccio problemi. Poi chi vuole starmi dietro ci può anche provare, ma rischia di pagarne le conseguenze…

Maurizio Fondriest, Miguel Indurain e Claudio Chiappucci mostrano il trofeo del Giro d'Italia
Maurizio Fondriest, Miguel Indurain e Claudio Chiappucci mostrano il trofeo del Giro d'Italia

Tornando al ciclismo moderno, cosa manca rispetto al suo?
Intanto non c'è più alcuna traccia di carisma, manca la personalità sulla bici. E anche la tecnologia di adesso ha inciso molto.

In che senso?
Vedo i ciclisti forse un po' più depressi rispetto a come eravamo noi quando il ciclismo era per prima cosa empatia con le persone. Prima e dopo le gare noi eravamo sempre in mezzo alla gente, oggi invece non è più così e il ciclismo nel suo insieme ne risente. Anche la famosa problematica del Covid al Giro non ha permesso che si ritornasse al contatto vero con le persone. Tutti i ritrovati tecnologici di adesso rischiano di limitare le iniziative, chi magari avrebbe anche la personalità di fare qualcosa in gara non lo può più fare.

A proposito, che rapporto ha El Diablo con la tecnologia?
Tutto sommato è buono anche perché come sempre ho fatto non mi affido a nessuno, gestisco tutto io la mia presenza sui social. Certamente ho dovuto studiare questo mondo diverso, ma siccome mi piace sempre stare in mezzo alle situazioni, mi impegno per restare attivo, far conoscere ciò che faccio, cosa succede, aggiornare chi mi segue, i tifosi del Diablo vecchi e nuovi. Avessi avuto a disposizione i social quando correvo io, col senno di poi, avrei fatto parlare ancora di più.

Le piace questo tipo di ciclismo?
No. Vedi, la differenza principale è che ai miei tempi il ciclista doveva saper ragionare e tanto. Eravamo abituati a farlo, dovevamo farlo anche nella corsa, quando non avevi il contatto con il direttore sportivo e anche se e quando avevi preparato una strategia alla partenza. Oggi invece è tutto inquadrato, preciso, schiavo della tecnologia, si devono rispettare direttive e piani che si portano avanti fino all'arrivo. Io conoscevo tutto dei miei rivali, il contatto tra noi atleti era costante, diretto: oggi è tutto prestabilito, il momento dell'attacco, dell'inseguimento. Chi c'è c'è e chi non c'è amen. Così hai affossato le rivalità, perché in questa maniera le hai annullate, perché tra di noi c'erano: nei caratteri differenti, nei modi di correre, per come interpretare una situazione. Oggi purtroppo non vedo più nulla di tutto questo.

Con l'aggiunta che anche gli impegni cui partecipare, oramai sono scelti a tavolino.
In effetti quando ci penso capisco che è tutto diverso rispetto a quando correvo io. Parlo di me ma anche della maggior parte dei ciclisti in gruppo, si facevano tanti Giri e Tour nello stesso anno, poi ci si preparava per le classiche in calendario, ci si preparava senza sosta per andare ai Mondiali e per arrivarci non era di certo così facile. C'erano delle corse in cui esisteva una selezione particolare e quindi c'era anche il desiderio di dimostrare di tenere alla maglia nazionale e ti mettevi alla prova in quelle gare. Da dove uscivano poi i migliori.

Claudio Chiappucci in trionfo con la maglia della Carrera Jeans, Team con cui corse (e ne fu anche capitano) dal 1985 al 1996
Claudio Chiappucci in trionfo con la maglia della Carrera Jeans, Team con cui corse (e ne fu anche capitano) dal 1985 al 1996

È corretto dire che eravate voi a far vivere il ciclismo?
Sì, noi davamo vita al ciclismo, facevamo parlare del ciclismo che è la cosa più bella, davamo notizie ai giornali che il giorno dopo uscivano con argomenti caldi. C'era un clima differente, si creava il tifo tra gli appassionati. Oggi per assurdo quasi non si sa nemmeno quando si corre il Giro d'Italia e quali tappe ha, chi vi partecipa. Perché non c'è più nessun corridore che fa parlare il ciclismo e senza questo non c'è visibilità: noi davamo da mangiare al giornalismo sportivo, c'era sempre una notizia su cui scrivere.

Anche perché se Chiappucci è stato un campionissimo lo deve grazie a grandissime rivalità.
È verissimo: eravamo rivali con Indurain, Lemond, Bugno in bicicletta ma sempre con grandissimo rispetto per l'aspetto umano. Da questo elenco escludo Marco [Pantani, ndr] perché era nella mia squadra, ero il suo capitano, ed era molto più giovane di me. Comunque, non è un segreto che ancora oggi a distanza di molti anni con i vari Indurain e Bugno ho buonissimi rapporti, mentre in strada si vedeva questa splendida rivalità, anche per l'entusiasmo dei tifosi che seguivano le corse. Era bello, era entusiasmante e motivante perché sapevi che non correvi per te ma per quelle persone che erano lì a tifare.

Chiappucci in maglia a pois, al Tour con a fianco il rivale di sempre, Miguel Indurain
Chiappucci in maglia a pois, al Tour con a fianco il rivale di sempre, Miguel Indurain

E oggi tutto è cambiato la colpa è anche dello stesso ciclismo?
Certamente: oggi se vuoi, di cosa scrivi? Questa chiacchierata ne è un esempio… bisogna ritornare ai tempi passati, sentendo i vecchi campioni che riescono ancora oggi a trovare spazio laddove invece lo spazio dovrebbe essere occupato dai corridori attuali. Ma il sistema te lo impedisce perché se vuoi intervistare un corridore devi passare dall'ufficio stampa, dal manager, dal direttore sportivo, dallo sponsor. Tutto questo ha creato divisori con l'informazione, con la visibilità, allontanandoci anche dal pubblico, con cui si hanno contatti sempre meno diretti.

Voltandosi indietro, il momento più bello che ricorda con maggior affetto?
Difficile, perché io ho tantissimi momenti belli ai quali sono legato fortemente. Ho tante fasi della mia vita che ricordo con sincero affetto, però il momento più bello, quello che ha dato il là alla mia carriera e che in un certo senso mi ha svegliato facendomi capire chi fossi e dove potevo arrivare è stata la prima maglia gialla al Tour de France.

Ci racconta cosa significa indossare la maglia gialla?
Mi sono svegliato dal sogno, mi sono davvero reso conto del valore che aveva la maglia gialla per tutto ciò che ci stava attorno. Dai giornalisti, ai tifosi, tutto ciò che mi ha improvvisamente circondato: era come se mi fosse venuta addosso una montagna intera. È stata una fase bellissima e importantissima della mia carriera, forse il momento più significativo.

In maglia gialla al Tour: "È lì che mi sono svegliato dal sogno"
In maglia gialla al Tour: "È lì che mi sono svegliato dal sogno"

E la delusione che ancora non la fa dormire la notte?
Senza dubbio i Mondiali [nel 94, ad Agrigento, medaglia d'argento dietro a Leblanc]. Io avrei potuto portare a casa i Mondiali, poi per diverse coincidenze, per ciò che mi circondava in quel momento, non è andata così. Ma quel mondiale era mio ed oggi è davvero qualcosa che manca. Perché sarebbe stata una vittoria mia, senza aver rubato nulla a nessuno. In quei giorni ero molto adrenalinico, ero arrivato all'appuntamento a tal punto che sentivo proprio mia quella corsa.

A ruote ferme: ha dato più Chiappucci al ciclismo o il contrario?
Diciamo entrambe le cose, ma sono perfettamente consapevole di aver dato tanto io al ciclismo. Io ho iniziato certamente senza enormi aspettative da parte di nessuno, sono entrato nel ciclismo come uno come tanti, poi cammin facendo mi sono imposto di diventare uno come pochi. E quando ci sono riuscito ho permesso al ciclismo di crescere perché io ho sempre fatto parlare, per il bene di questo sport: che perdessi o vincessi, ero sempre una notizia e questo era la cosa più bella.

Anche davanti a chi la criticava di continuo?
Io sapevo perfettamente di essere al centro dell'attenzione e mi sono anche divertito a gestire alcune situazioni. Sapevo di essere uno cercato perché dicevo sempre qualcosa e ad un certo punto ho anche viaggiato molto su quell'onda, ci ho anche giocato molto, ma mi riusciva naturale. Molte persone, anche qualche giornalista era caduto nel tranello di seguire le voci per cui io interpretavo un personaggio, magari il ciclista un po' stupido, ingenuo ma non era proprio così. Oggi posso serenamente dire che me la sono sempre giocata questa situazione a mia discrezione, gestendola: alla fine gli stupidelli erano loro, non il sottoscritto. Oggi basti vedere che cosa ho fatto per il ciclismo e dove sono arrivato anche grazie al mio comportamento. A 60 anni sono ancora ricercato, ricordato, amato.

Che sensazione le resta nel sapere di aver lasciato un segno indelebile come atleta e uomo?
Sono la persona più felice del mondo perché so di essere stato sempre me stesso, ho viaggiato sempre sulla sincerità e la trasparenza e continuo ad andare avanti su questa strada, che è la mia strada. Se c'è da asfaltare qualcuno lo asfalto anche oggi senza problemi, perché so di non dovere nulla a nessuno. Devo dire solamente grazie ai miei familiari, ai miei tifosi, questo assolutamente sì. Poi l'invidia, le critiche e i critici ci sono stati e ci saranno sempre, questo fa parte del gioco, dello sport e della vita. Ma tutto ciò è semplicemente un costante stimolo per El Diablo.

E nei prossimi 60 anni Chiappucci come si vede?
Beh, sinceramente dovrei anche pensare un attimo a calmarmi e a dedicarmi maggiormente alla vita cosiddetta normale e tranquilla. Sono 60 anni che sto andando a tutta, in una vita in fuga come s'intitola una delle mie biografie. Ma è incredibilmente bellissimo.

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