Paul Scholes: “Dopo la diagnosi di mio figlio non volevo più giocare, non lo avevo detto a nessuno”

Paul Scholes ha fatto un passo indietro lasciando il suo posto da opinionista televisivo. La leggenda del Manchester United ha scelto di ridurre drasticamente gli impegni professionali per trascorrere più tempo con suo figlio Aiden. Il ragazzo, con autismo non verbale diagnosticato quando aveva due anni, trascorre metà settimana con il padre come da accordi presi dopo il divorzio e l'ex calciatore ha organizzato la sua vita per accompagnarlo in tutte le attività che svolge. È sempre stato così anche quando era ancora in attività, una situazione per la quale ha sofferto dato che faceva enorme fatica a conciliare la vita da calciatore con quella da genitore. L'inglese si è aperto parlandone all'interno del podcast Stick to Football, condotto insieme ad altre vecchie glorie del calcio inglese, e per la prima volta ha raccontato con trasparenza la sua storia personale.
Scholes racconta il rapporto con suo figlio
Aiden è il minore dei suoi tre figli, avuti tutti con l'ex moglie Claire Froggatt dalla quale ha divorziato nel 2021. Resta con lui per tre volte alla settimana e Scholes si gode tutto il tempo a sua disposizione con suo figlio: "Tutto il lavoro che faccio ora si concentra sulle sue routine, perché ha una routine piuttosto rigida ogni singolo giorno, quindi ho deciso che tutto ciò che farò sarà incentrato su Aiden". È il motivo per il quale ha scelto di non continuare la carriera da opinionista televisivo, così da avere più tempo a disposizione per accompagnarlo nelle attività che più gli piacciono: "Non sa che giorno o che ora sia, ma da quello che stiamo facendo capisce che giorno è. Compirà 21 anni a dicembre".

L'ex Silent Hero del Manchester United ha ammesso di aver avuto molte difficoltà a gestire suo figlio quando era ancora un giocatore e ci ha messo del tempo per raccontare la verità all'allenatore e ai compagni di squadra: "Spesso arrivavo agli allenamenti con segni di morsi o graffi di Aiden per la frustrazione di non essere capito. Ricordo la prima volta dopo la diagnosi, dopo una trasferta a Derby. Non volevo proprio essere lì e giocare. L'allenatore mi ha messo in panchina la settimana successiva, e a quel punto non lo avevo ancora detto a nessuno". Ha dovuto affrontare una situazione che per lui e la moglie era del tutto nuova: "Non credo che i medici l'abbiano diagnosticato prima dei due anni e mezzo. Ma si capiva subito che qualcosa non andava, ma poi arrivava la diagnosi e io non ne avevo mai sentito parlare".