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Marco Zambelli: “In Serie A vedevo giocatori piangere sotto la doccia. Nessuno ti prepara a quello”

Marco Zambelli, ex capitano del Brescia, racconta la sua vita da bandiera e quel che non si vede della vita dei calciatori: gioie, pressioni e resilienza, e l’importanza di tutelare la salute mentale.
A cura di Sergio Stanco
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“Una bandiera è per sempre”, questo è il titolo che ci ha regalato Marco Zambelli, ex capitano del Brescia, oggi impegnato a creare una nuova professione calcistica (spiegheremo in seguito…). Ovviamente, sempre a Brescia. Perché non esistono solo Totti e Del Piero, ma anche le bandiere di provincia che – se possibile – sono ancora più radicate al territorio. Ecco, Marco Zambelli è una di questa, quelle che non sventolano solo su un campo da calcio, ma su una città intera. Nato in provincia, entrato nel settore giovanile all’età di quindici anni (anno 2000), ha lasciato le Rondinelle – suo malgrado – dopo altri tre lustri di gioie e sofferenze, che lo hanno anche provato dal punto di vista fisico e psicologico. Marco è un (ex) calciatore atipico, uno che dopo il ritiro ha deciso di laurearsi in Economia per esplorare nuovi mondi, che ha fatto l’allenatore del calcio femminile (ovviamente a Brescia, nella società di cui la moglie è Presidente) per contribuire alla crescita del movimento, che studia dinamiche che nel calcio sono spesso trascurate, ma che invece meriterebbero attenzione. Temi importanti, intervallati anche da pause divertenti perché, alla fine, ogni tanto dobbiamo anche ricordarci che il calcio resta pur sempre un gioco…

Allora Marco, partiamo a bomba: cosa significa essere una bandiera?
“Beh, quanto tempo abbiamo (ride, n.d.r.)? A parte gli scherzi, per me essere stato bandiera del Brescia ha significato andare molto oltre il campo. Ho creato un legame con la mia terra, con i tifosi, con il club, che è indissolubile e durerà in eterno. Io per tutti sarò sempre il capitano e la bandiera del Brescia e questo è quello che mi rende più orgoglioso. Ancora oggi, quando mi capita di camminare in città, sento l’affetto dei tifosi. E, ormai, sono passati dieci anni dal mio addio. Significa che qualcosa ho trasmesso…”.

Ma come si fa a diventare una bandiera?
“Io credo che non basti essere cresciuto nel settore giovanile o aver giocato per tanti anni in una squadra, piuttosto i tifosi ti riconoscono l’impegno quotidiano, la volontà di rappresentare i valori della squadra, ma anche quelli del territorio, onorare e sudare sempre la maglia. E non è neanche vero che è una questione di soldi, perché spesso altrove potresti guadagnare di più. È una scelta di vita, che fai solo se senti qualcosa dentro”.

E i tuoi tifosi te lo hanno riconosciuto in quel Brescia-Foggia (30 maggio 2019), in cui per la prima volta sei tornato da “avversario” al Rigamonti…
“Guarda, è stata una delle emozioni più forti della mia vita, difficile da spiegare. Il tributo che mi hanno regalato è stato un turbinio di emozioni. Ho ancora i brividi. Perché – sai – anche se io ero cresciuto con il sogno di giocare nella squadra della mia città e uscire dal Rigamonti possibilmente a quarant’anni a fine carriera, le cose non sempre vanno come ti auguri. L’addio al Brescia è stato il momento più difficile della mia vita, quello più sofferto e che mi ha provato dolore non solo fisico. Per cui quel giorno non sapevo cosa aspettarmi. Quando ho ricevuto quell’accoglienza, mi sono sciolto. Ci sono ancora video in giro di una mia intervista nel post-partita nella quale sono scoppiato a piangere come una fontana (ride, n.d.r). Non me ne vergogno, perché dimostra quanto ci tenessi…”.

Zambelli contro Cassano con la maglia del Brescia.
Zambelli contro Cassano con la maglia del Brescia.

L’addio è stato il momento più difficile da gestire emotivamente e psicologicamente?
“Uno dei momenti. Nessuno ti insegna ad essere capitano o bandiera e pochi capiscono il peso delle responsabilità che ti carichi sulle spalle. La gente vede un ragazzo che ha coronato il suo sogno, ma dimentica le pressioni e, inoltre, dimentica che nessuno ci ha preparati a prendere certe decisioni a diciotto, vent’anni. Io ricordo che l’ultimo anno di Brescia andavo con il presidente in pellegrinaggio dagli imprenditori locali perché la situazione era difficile e si rischiava di non arrivare a fine mese…”.

È in quel periodo che hai deciso di intraprendere il percorso in terapia?
“Sì, avevo cominciato anche un po’ prima, perché mi rendevo conto di aver bisogno di aiuto. Le difficoltà erano tante, così come le pressioni e – per quanto nella mia carriera avessi già superato tanti problemi, come ad esempio la rottura di due crociati tra i diciannove e i ventun anni – mi sono accorto che ero al limite e rischiavo di scoppiare. Credo che adesso – almeno lo spero – ci sia una maggiore attenzione all’aspetto psicologico dell’atleta – anche se non so se sufficiente – ma allora nessuno si preoccupava di te. Ti allenavi, giocavi bene e avevi una settimana tranquilla, giocavi male e ti bruciava dentro fino alla partita successiva. Io ho assistito a scene difficili da comprendere da fuori, gente che giocava in Serie A che prima della partita, sotto la doccia, piangeva e diceva “Non vedo l’ora che finisca”. Cioè, quello che doveva essere un gioco, e un qualcosa che sognavi fin da bambino, si stava trasformando in un incubo. Nessuno arriva preparato a questo tipo di situazioni. E, questo, è un aspetto del mondo del calcio che, secondo me, andrebbe migliorato fin dalle giovanili, non solo dalle prime squadre, ammesso che ora in prima squadra lo facciano…”.

Stai parlando di percorsi di coaching applicati a vent’anni fa, una cosa che – forse – si sta diffondendo solo adesso…
“Non sto parlando di mental coach o psicologia applicata al calcio, ma semplicemente di educazione. I settori giovanili ti preparano fisicamente, tecnicamente, tatticamente, ma in pochi pensano a preparare i ragazzi a quello che li aspetterà in futuro, nella vita oltre che nel calcio. Bisogna ricordarsi che le statistiche sono impietose: per un ragazzo che riesce a diventare professionista, ce ne sono altri cento che non hanno questa fortuna. E di quelli nessuno si preoccupa, ma sono ragazzi che poi devono reinventarsi, perché per vent’anni hanno pensato solo al calcio. Io ho visto con i miei occhi compagni cadere in depressione per non essere riusciti a coronare il loro sogno”.

Zambelli in una partita ai tempi dell’Empoli.
Zambelli in una partita ai tempi dell’Empoli.

Dunque, che consiglio ti sentiresti di dare ai ragazzi che oggi sognano di diventare calciatori?
“I consigli sono sempre gli stessi: impegnarsi, sacrificarsi, dare tutto, ma – soprattutto – non auto-flagellarsi se le cose non dovessero andare come sperato. Se uno ha dato il massimo, non deve rimproverarsi nulla, il fallimento non deve essere vissuto come un dramma. Il fatto che se uno si impegna, allora arriva, è una cazzata (testuale n.d.r.). Scusate la brutalità, ma è così. Il successo o l’insuccesso è il risultato di tanti fattori, alcuni dei quali non dipendono neanche da noi. Ho visto gente fortissima che avrebbe dovuto fare una carriera eccezionale, non giocare neanche in C e gente che, invece, sulla carta non era quotata e, poi, è arrivata in Nazionale. Nel settore giovanile del Brescia con me c’era Andrea Alberti, ha esordito nel Brescia di Mazzone a sedici o diciassette anni e, ti assicuro, che in quella squadra non giocavi se non eri un fenomeno. Era destinato ad una grande carriera, ma poi è caduto nel vortice degli infortuni e non è riuscito a giocare ad alti livelli. Poi, ho giocato anche con Antonio Nocerino nelle nazionali giovanili, squadre nelle quali c’erano Aquilani, De Rossi, Montolivo. Ecco, Antonio è un caso di perseveranza che andrebbe mostrato come esempio positivo ai giovani di oggi”.

Tu eri nelle giovanili quando la prima squadra era quella di Baggio, Guardiola, Mazzone e tante altre icone della storia non solo del Brescia, ma del calcio mondiale in generale. Qualche ricordo?
“È stato un momento credo irripetibile della nostra storia, che ho avuto la fortuna di vivere da vicino, anche se non da dentro lo spogliatoio. Come giovane della Primavera mi è capitato di allenarmi con loro, anche se noi dovevamo stare ad almeno due metri da certi giocatori (ride, n.d.r.). Prima degli allenamenti ti catechizzavano, ti dicevano “stai attento a quello, stai attento a quell’altro, mi raccomando”. A me una volta è capitato di sfiorare per sbaglio Roby. Non era neanche un contrasto, ero proprio scivolato, ma l’avevo appena toccato. Mazzone era in tribuna, perché d’inverno seguiva gli allenamenti dall’alto, ha fischiato e fa: “Marco, vai a fare la doccia”. Pure Baggio ha provato a difendermi, a spiegare che non l’avevo fatto apposta, ma nulla. Mi son sentito una m… (ride, n.d.r.)”.

Non sei stato allenato da Mazzone, ma da altre icone del nostro calcio come Cosmi e Zeman, sì: qualche aneddoto?
“Diciamo che ogni epoca del calcio ha i suoi allenatori e che i nostri non erano conosciuti per essere empatici come quelli di oggi (ride, n.d.r.). Io ho un buon ricordo di tutti, forse anche perché – come capitano – dovevo entrare in sintonia e in sinergia con loro. Serse o lo amavi o lo odiavi, ma è riuscito a tirar fuori qualcosa di extra da me. La cosa che forse qualcuno non sa, è che è un tipo simpaticissimo. Ricordo una volta che stavamo correndo attorno al campo per riscaldarci prima dell’allenamento e vediamo lui che tira fuori due casse enormi, il mixer, le cuffie e comincia a mettere la musica. Uno spettacolo. Una volta, durante una partita, ha redarguito Marius Stankevicius, un difensore lituano di più di un metro e novanta per un passaggio sbagliato. Marius viene verso la panchina incattivito e fa: “Mister, cosa c’è, non ho capito”. E lui, ridendo: “Niente Marius, stai andando benissimo, continua così”. Un’altra volta c’era Cisco Lima, un centrocampista brasiliano, ormai aveva 38 anni, ma era ancora uno forte. Ha provato un colpo di tacco e ha perso palla. Cosmi si gira verso la panchina è fa: “Ma guarda questo, pensa di essere ancora un ragazzino e non si rende conto che è più vecchio del Colosseo”. E noi in panchina a ridere come matti”.

Zambelli con la maglia del Foggia in Serie B.
Zambelli con la maglia del Foggia in Serie B.

Di Zeman, invece, che ricordi hai?
“Ho il rimpianto di non averlo vissuto da dentro lo spogliatoio, perché in quel periodo ero infortunato, ma ho comunque un ottimo ricordo di lui. Anche lui è una persona piacevolissima e molto simpatica. I miei compagni, però, si ricordano ancora i gradoni. Qualcuno mi sa che è ancora nascosto in infermeria pur di non farli. Ricordo che quando arrivavi ad Ospitaletto per l’allenamento, ti accorgevi subito se il mister era già lì, perché aprivi la porta e c’era la nuvola di fumo che ti assaliva. Era un calcio diverso, più romantico e genuino, diciamo così, se no ci dicono che siamo vecchi. A proposito, ho saputo che Mister Zeman non è stato molto bene di recente, gli mando un grande abbraccio virtuale e spero che si rimetta presto”.

Qualche compagno che, invece, ti ha colpito particolarmente?
“Ricordo la prima volta che ho visto Hamsik in allenamento, era come se avesse un’aurea. Lo guardavi e dicevi, questo è di qualità superiore. Un altro esempio di perseveranza, invece, è Dimarco: eravamo insieme ad Empoli (2016/2017, n.d.r.) e a fine stagione io ero svincolato. Ero in spiaggia, mi squilla il telefono ed era lui che aveva ricevuto l’offerta del Sion. Non sapeva se fosse il caso di andare all’estero. Ecco, ripensandoci ora mi fa una certa impressione vederlo all’Inter e in Nazionale. Anche perché, questo è un calcio molto fisico e lui è un po’ atipico in questo senso, ma probabilmente è uno dei calciatori più intelligenti che abbia conosciuto. Oltre al fatto che con quel sinistro, fa quello che vuole. Un altro che tecnicamente era un fenomeno era Alino Diamanti: arrivava dal West Ham, con noi ha fatto un anno non eccezionale (2010/2011, n.d.r.), ma le qualità erano da top player. Lo ricordavo dai tempi del Livorno, lui e Tavano ci facevano impazzire”.

Tornando ad oggi, bandiera del Brescia, un passato da ex calciatore professionista, un patentino da allenatore, una laurea in Economia, ma Marco Zambelli ha deciso cosa fare da “grande”?
“Eh, forse ancora no. Per ora studio, ho la fortuna di essere molto curioso, ho fatto tanti corsi di formazione anche con l’associazione calciatori e sto cercando di farmi una cultura a 360 gradi. Mi piacerebbe contribuire allo sviluppo del mondo del calcio su aspetti che, secondo me, andrebbero potenziati. Faccio un altro esempio: nessuno sa quello che succede ad un calciatore dopo il ritiro, ma spesso si attraversano momenti di puro smarrimento. Per tanti anni vivi in una bolla, poi un giorno ti svegli, ti guardi allo specchio e pensi: “Ma io chi sono?”. Parlo per esperienza personale, ma so che a tanti altri compagni è successo lo stesso. Cioè, o hai avuto la fortuna di essere un calciatore di grande successo che, finita la carriera, sa già che farà l’allenatore, oppure davvero fatichi a trovare il tuo posto nella “vita normale”. Come dicevo prima, il calciatore andrebbe aiutato prima di essere costretto ad andare in terapia, non dopo. Sarebbe utile un percorso per guidare i giocatori e aiutarli e re-inserirsi nel mondo del lavoro. Se dovesse essere ancora il calcio, sarebbe perfetto, ma se non fosse così, anche in questo caso è importante capire che la vita continua. Un altro progetto sul quale mi piacerebbe lavorare qui a Brescia, è quello di creare un legame sempre più stretto tra sport, calcio e territorio. Quello che dico sempre è che nel mondo ci sono quattro miliardi di tifosi, nessuna religione ha così tanti fedeli. E sappiamo benissimo che i grandi giocatori vanno sempre nelle solite squadre. Dunque, bisogna riuscire a trovare il modo per alimentare questa connessione tra i tifosi (ma anche la città in generale) e la squadra, che deve essere portatrice e sponsor dei valori del territorio. Quando scendi in campo rappresenti una città e quella città si deve riconoscere nella squadra”. D’altronde, una bandiera è per sempre, no?

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