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Il paradosso dell’India, la nazione più popolosa del pianeta che non gioca mai i Mondiali di calcio

La nazione più popolosa al mondo non è mai riuscita a qualificarsi ai Mondiali e quando è stata invitata ha rifiutato. Le cause del mancato sviluppo del calcio in India, uno sport poco popolare e destinato a restare nell’ombra del cricket.
A cura di Nicolo Piemontesi
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Ancora una grande delusione per l'India. L'ultima sconfitta contro Singapore, ha relegato la formazione all'ultimo posto del girone C per la qualificazione al Mondiale. Un risultato che conferma il trend negativo che incuriosisce: la nazione più popolosa al mondo non è mai stati ai Mondiali.

Sembra ormai una maledizione per l'India che, dalla fondazione della squadra di calcio in rappresentanza del paese, nel 1937, non ha mai partecipato al torneo più importante per Nazionali. Anche in questa occasione con solo due partite da giocare e una differenza reti che, insieme a quella del Bangladesh, è la peggiore del girone, il destino sembra ripetersi. I motivi sono tanti e trovare un responsabile principale non è semplice: dalle infrastrutture poco all'avanguardia, allo scarso interesse nazionale, fino all'alto livello delle altre nazionali asiatiche che, seppur più piccole, riescono a primeggiare contro l'India.

Il calcio non può nulla contro il cricket in India

La ricerca dei motivi parte dal punto di vista storico. Fino al 1947 l'India è stata sotto all'egemonia del Regno Unito e, sebbene gli inglesi abbiano inventato il soccer, non è questo lo sport che hanno importato. L'attenzione dei media e della gente si riversa infatti verso un'attività che veniva considerata più nobile, che ai tempi era simbolo del'elitè britannica, ovvero il cricket. In questo l'India eccelle, investe e di conseguenza vince. Nel calcio queste cose mancano, e la differenza è abissale, il gioco del pallone resta uno sport secondario.

Questo minore interesse si riversa poi nei futuri atleti che sin da piccoli preferiscono altri sport. Il possibile ritorno economico in caso di eccellenza nel calcio non vale gli sforzi e gli investimenti fatti, ecco perché le persone tentano la fortuna in altri campi. Si genera così un circolo vizioso, per cui sempre meno persone si interessano a questo sport, i fondi e i ricavi diminuiscono ancora di più e gli investimenti vengono ridotti. Questo si rivede poi nelle infrastrutture e nei centri sportivi, spesso carenti e arretrati rispetto a Paesi anche molto più piccoli dell'India.

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Campionati poco competitivi e strutture disorganizzate

Il risultato finale non è un sistema solo carente, bensì una vera e propria disorganizzazione generale. Non solo una questione amatoriale, anche i giocatori di primo livello si sono ritrovati nella stessa situazione, senza centri adatti a prepararsi e senza poter disporre di figure che nel mondo del calcio sono basilari, come preparatori atletici, nutrizionisti e metodi di allenamento aggiornati. È solo negli ultimi 10 anni che l'AIF, la federazione calcistica indiana, ha cominciato un lungo processo di rivoluzione, aiutata anche dalla FIFA.

Chi arriva in prima squadra non è detto che abbia fortuna, perché i campionati stessi non rappresentano un buon bacino per lo sviluppo. Fino al 2014, il massimo campionato indiano era l’I-League, nata nel 2007 ma con scarsa visibilità e poche risorse economiche. Per risollevare il movimento, nel 2014, è nata la Indian Super League (ISL), che invece di rimpiazzare la lega già esistente ci ha convissuto, creando così rivalità interne e confusione generale.

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La ISL ha puntato subito al successo, cercando di attrarre sponsor e attenzione da parte dei media, per farlo però ha dovuto ingaggiare giocatori già formati, leggende a fine carriera (Anelka e Del Piero tra i tanti), sacrificando così lo sviluppo dei giovani talenti locali. Solo dal 2020 la Super League è diventata il campionato ufficialmente riconosciuto come “massima divisione”.

Il posizionamento basso nel ranking e la rivalità in Asia

Il ritardo accumulato si riflette ancora nei risultati della nazionale, come mostra il suo basso posizionamento nel ranking FIFA, dove l’India oscilla intorno al 120º posto. Questo dato evidenzia il divario con le principali potenze asiatiche, che beneficiano di strutture e programmi di sviluppo molto più solidi. La squadra indiana fatica a superare le prime fasi delle qualificazioni ai Mondiali e ottiene pochi punti internazionali, segno che la crescita del movimento calcistico interno non si è ancora tradotta in competitività a livello globale.

Per qualificarsi l'India deve riuscire a primeggiare nella sua zona di competenza, quella della AFC Asia, dove però ci sono nazioni ben più forti. Pensiamo per esempio a Giappone e Corea del Sud, squadre solide arricchite da quei talenti che a livello continentale possono fare la differenza e che giocando in Europa possono svilupparsi al meglio.

Per quanto riguarda i giocatori indiani invece, è molto difficile che riescano a uscire dai propri confini. Lo dimostrano i fatti: dell'ultima rosa convocata per le partite di qualificazione al Mondiale 2026 nessuno gioca in campionati extra India.

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Il precedente del 1950: India ai Mondiali in Brasile

A essere precisi, però, va segnalato che l'India si è qualificata una volta ai Mondiali. È successo nel 1950 per l'edizione della Coppa del Mondo in Brasile. Non per meriti, ma a causa dei troppi ritiri di altre federazioni. Per colmare i vuoti lasciati dalle Nazionali forfettarie, la FIFA decise di invitare l'India. Anche in quell'occasione niente esordio nel torneo, la federazione decise di rifiutare la proposta a causa delle difficoltà logistiche, della mancanza di fondi nonché per la preparazione giudicata poco adatta per partecipare a un torneo di tale livello.

Aleggia inoltre una strana leggenda, mai confermata dalla federazione e dalla FIFA stessa. Da quanto si racconta, sarebbe stato l'organo, oggi presieduto da Giovanni Infantino, a vietare la partecipazione dell'India dopo averla invitata. Il motivo? La FIFA avrebbe vietato di giocare a piedi scalzi, cosa che i giocatori indiani facevano allora.

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