Ettore Mendicino: “Oggi aiuto i calciatori in crisi. Io mi sentivo incompreso, un cavallo messo lì”

Ettore Mendicino ha 35 anni e da calciatore ha vissuto diverse esperienze importanti. Di ruolo attaccante, è cresciuto nel settore giovanile della Lazio con tanto di esordio e gol ad Anfield (poi annullato ndr) contro il Liverpool. Negli anni ha poi vissuto altre tappe importanti in forza a squadre del calibro di Salernitana, Crotone, Ascoli, Gubbio, Taranto, Como, Siena, Arezzo, Cosenza, Monopoli, Rimini, Paganese, Sambenedettese, Ravenna e poi la LUISS in Eccellenza. Qui si è fermata la sua carriera dando il via alla sua seconda vita: il coaching. Mendicino si è dedicato al coaching per supportare sportivi e non, arrivati a fine carriera, aiutandoli anche ad orientarsi al meglio dopo aver concluso la propria carriera. Ne ha parlato a Fanpage.it: "È una figura che ho sentito dentro sin da quando ero calciatore. Se non si è delle persone centrate, o equilibrate, il rischio è quello di andare in una profonda crisi esistenziale identitaria".
Cosa fa oggi Ettore Mendicino?
"Tantissime cose, ma soprattutto aiuto le persone a vivere una vita decisamente più consapevole".
In che senso?
"Aiuto gli sportivi attraverso il coaching sportivo, essendo proprio una figura di mental coach, ma anche nel business, perché aiuto le aziende, i team nell'affrontare le sfide, nel risolvere i problemi, nel migliorare gli ambienti".
Come sei arrivato a questo tipo di ruolo?
"Nasce da questo bisogno che ho avuto al termine della mia carriera di provare a mettere in guardia chiunque sia, anche i giovani, che si approcciavano al mondo del calcio professionistico e che sono nel bel mezzo della loro carriera. Mi sono reso conto nel corso della mia carriera calcistica di non aver vissuto spesso bene il rapporto che avevo con la mia identità da calciatore e ho compreso che questa cosa nessuno l'aveva mia notata".
Quando hai capito di voler smettere di giocare e dedicarti a questo?
"È una figura che ho sentito dentro sin da quando ero calciatore, perché chi mi ha conosciuto in campo sa che ho sempre lottato per determinati valori, ho sempre creduto nella forza del gruppo e ho sempre creduto che se una persona sta bene si sente libera di poter dimostrare il suo massimo potenziale".
Qual è la storia che ti ha maggiormente colpito riferita a un tuo ex compagno di squadra in tal senso?
"La storia che mi ha colpito di più è stata la mia. Ho sperimentato tutto quello che provo a fare con le persone su me stesso".
E così hai preso consapevolezza di questo ruolo.
"Sì, perché il vero lavoro l'ho fatto da solo con me stesso, anche perché poi quando si spengono le luci, in questo caso del calcio, è una cosa ben più evidente. Se non si è delle persone centrate, o equilibrate, il rischio è quello di andare in una profonda crisi esistenziale identitaria".
E come si risolve questa crisi?
"Cercando di capire chi si è indipendentemente da come gli altri ci vedono. La chiave è assolutamente dentro di noi nel capire quello che è il nostro scopo nella vita, e quindi vivere in armonia con quello che realmente abbiamo dentro e ci rende felice. Il problema è che le persone difficilmente riescono a comprendere cosa risiede dentro di loro perché sono continuamente contaminate dal mondo esterno".
È la tua vera missione?
"La definisco una missione perché ho visto da vicino quanto ci sia necessità, soprattutto nelle categorie minori. Ci sono tanti ragazzi tra serie B, serie C e altre serie minori che sono veramente precari e che tutto ad un tratto si risvegliano un po' da un'ipnosi che il calcio gli ha dato. Il motivo è che non hanno delle fondamenta reali e il rischio è poi dopo di cadere veramente in basso e di trascinare anche le proprie famiglie, le proprie compagne e sono degli argomenti molto delicati".

Qual è secondo te la prima cosa da fare per non trovarsi spaesati al termine della carriera da calciatore?
"La prima cosa fondamentale è mettere in guardia ragazzi e per me la parola chiave è vivere in armonia. Bisogna sapere accettare la sconfitta e non osannarsi nella vittoria. A me si rivolgono le persone che spesso attraversano una crisi, hanno voglia di cambiare, o che sentono di non riuscire ad ottenere in quel momento i risultati che credono di poter meritare".
E a quel punto cosa fai?
"Svolgo un lavoro introspettivo per rieducare, riassettare e resettare un po' la persona, perché io credo sempre che se sta bene la persona tutto il resto viene di conseguenza".
Sei stato sempre considerato come uno dei talenti del settore giovanile della Lazio.
"Ero considerato una promessa, ho esordito in Serie A 18 anni, feci gol ad Anfield Road a quell'età. Ero un giocatore della nazionale under 21 e ho giocato al fianco di ragazzi che poi hanno fatto una grande carriera, come Ciro Immobile, lo stesso Darmian. Il calcio però ha tantissime variabili che spesso non consideriamo, crediamo che il valore di un giocatore venga definito solo da quanti gol faccia, ma non è così".
E perché poi alcuni giocatori non hanno lo stesso percorso di altri?
"In realtà spesso il calciatore è vittima dei consigli di un procuratore, piuttosto che di un genitore, di un allenatore, degli infortuni, di una modalità di gioco all'interno di quella squadra che gli possa garantire più o meno dei benefici".

Tu sentivi questo peso a quell’età?
"All'interno della mia carriera, ovviamente io ho subito questa pressione. L'ho detto e credo che se avessi avuto un allenamento mentale specifico a gestire le mie emozioni, se avessi avuto dei trainer e dei coach molto più empatici e consapevoli di quello che io volevo dare, sicuramente mi sarei potuto togliere più soddisfazioni".
Hai avuto tante altre esperienze in giro per l’Italia, dove hai capito che il calcio era diventato troppo per te?
"Troppo per me no, mi sono sempre sentito non compreso. Cioè dentro di me quando a volte mi sentivo un numero, nessuno veniva a chiedermi come mi sentissi. Cioè, eravamo come, diciamo, dei cavalli messi lì, allenati perché dovevamo svolgere il nostro allenamento. Basti pensare che nessuno mi ha mai chiesto in quale ruolo mi sentissi più forte in campo".
Questo è un problema grande secondo te?
"Sì, durante la mia carriera molto spesso mi sono sentito non compreso. Quello che è venuto a mancare secondo me è stata sempre la gestione della persona e c'è sempre stato un occhio smisurato nei confronti del calciatore".
Hai conosciuto il presidente Lotito di persona, qual è il tuo pensiero sul presidente biancoceleste?
"Il mio rapporto col presidente è stato sempre di odio e amore perché non nego di aver avuto delle incomprensioni con lui. Ma devo anche ammettere che in determinate situazioni mi ha supportato".

C'è un aneddoto che ti lega maggiormente a lui?
"Quando arrivai alla Salernitana ebbi un problema cardiaco e lui mi ha seguito dandomi una mano fornendomi le cure necessarie. Qualcuno potrà che fosse scontato dato che ero un suo giocatore e invece mi ha aspettato, non mi ha scaricato, e anche grazie a lui sono poi riuscito a fare quei 2 anni alla Ternana che mi hanno portato anche la conquista del campionato e andare in Serie B".
Ma la Lazio per te è stata tutto.
"Alla Lazio in generale io devo tanto perché mi ha cresciuto dandomi l'opportunità di esordire tra i grandi, e non dimenticherò mai anche Delio Rossi che mi ha dato la possibilità di giocare in una Lazio di grandissimi giocatori. Quando vai in alto capisci la vera professionalità di campioni che nonostante guadagnassero delle cifre enormi, con una grande carriera alle spalle, avevano una grande umiltà e una disciplina del lavoro come se stessero giocando tra persone normalissime. Questa è una delle cose che io mi porto dietro per la vita e che provo ad insegnare anche alle aziende: l'esempio deve arrivare sempre da chi ha di più e deve porsi sullo stesso livello dei ragazzi che devono imparare".