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Il calcio secondo Davide Nicola: “Si vince anche senza alzare lo Scudetto, serve nuova cultura sportiva”

Davide Nicola a Fanpage.it ha espresso la sua visione e le sue idee su diverse tematiche che riguardano il calcio degli ultimi tempi: dall’allenatore-psicologo alla comunicazione nel gruppo, dall’eccellente lavoro tattico che si fa in Italia ad una speranza di veder ‘migliorare la cultura sportiva’.
A cura di Vito Lamorte
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È chiaro che io non ho ancora vinto un campionato ma non ho ancora allenato una squadra che potesse farlo. In Italia ci dobbiamo un po’ liberare da alcune cose e migliorare la cultura sportiva perché ci sono diversi tipi di successo.

Ci sono etichette che non ti scolli più da dosso. Vale per ogni lavoro e per l'allenatore di calcio probabilmente lo è ancora di più. Davide Nicola è stato definito ‘mister salvezze impossibili' in diverse occasioni e quando si parla di lui si fa riferimento sempre e solo a quelle imprese straordinarie ma è tanto, molto altro.

Il mister, che negli ultimi giorni è stato accostato alla panchina della Nazionale Italiana, è in montagna ma dalle sue parole traspare una voglia matta di tornare in campo e di mettere mano alle idee che in questo periodo, senza una panchina tutta sua, ha potuto analizzare, studiare e affinare."Per un allenatore l’habitat naturale è il campo", ci dice in maniera schietta e senza troppi giri di parole.

Negli occhi di tutti c'è ancora il suo capolavoro con la Salernitana, ma Nicola sta già guardando la prossima sfida: "Studio per tornare in pista e per darmi sempre nuovi obiettivi". In continuo movimento per non restare indietro in un mondo che non si ferma mai.

Il tecnico classe 1973 nato a Luserna San Giovanni in Piemonte ha iniziato ad allenare nel 2010 in Lega Pro, dove ha sfiorato i playoff-promozione col Lumezzane per due stagioni consecutive; poi nel 2012 ha esordito in Serie B col Livorno e ha centrato la promozione in A al primo tentativo. A Bari è stato sollevato dall'incarico dopo aver tenuto una media punti inferiore solo a quella di Antonio Conte nell’anno della promozione (35 punti nelle prime 21 giornate, contro i 37 di Conte) ma dopo sono arrivate una serie di salvezze che sono già scolpite nella storia del calcio italiano: dal Crotone alla Salernitana passando per Genoa e Torino. Storie diverse, momenti differenti ma stesso esito.

Quello con Davide Nicola è più un dialogo che una classica intervista. Siamo andati avanti per diverso tempo scambiandoci punti di vista e ragionando sulle situazioni di campo ed extra-campo, sulla comunicazione con la squadra e su alcuni spunti tattici che sono diventati argomento di dibattito sui media. A Fanpage.it l'ex giocatore di Fidelis Andria, Genoa, Pescara, Ternana e Torino ha messo in chiaro la sua visione e le sue idee sul calcio di questi ultimi tempi e su tutto ciò che gli gira intorno.

Quanto è difficile stare lontano dal campo e cosa fa un allenatore quando non ha una panchina tutta sua.
"Indubbiamente per un allenatore l’habitat naturale è il campo. Lo è quando tutto inizia a mettersi in moto e ci si prepara per la stagione, lo è quando subentri ma lo è anche quando non stai allenando. In ogni componente di questi periodi ci sono tutti i presupposti per curare di più e sempre meglio gli aspetti che in altri momenti non avresti fatto allo stesso modo. Per ricerca, valutazione e novità. Nella carriera di un allenatore i periodi sono questi ma ognuno è fondamentale perché ti dà la possibilità per mettere a fuoco quello che vuoi raggiungere, migliorare alcune dinamiche, capire se la metodologia ha bisogno di accorgimenti e innovazioni: per me sono tutti molto efficaci. Ci sono dei momenti in cui si fanno delle scelte e io ho sempre provato a prendere spunti da ogni periodo della mia carriera. Naturalmente, non sono un bugiardo, e non posso non dire che l’habitat di un allenatore è il campo".

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Lei ha ricevuto l’abilitazione a Coverciano con una tesi molto interessante intitolata “Leader… si nasce o si diventa?”: qual è la risposta definitiva?
"Qualche tempo fa, ad una convention aziendale, mi hanno chiesto quando conta la psicologia nel nostro lavoro e quanto sia giusto parlare di ‘allenatore-psicologo’. Per me l’‘allenatore-psicologo’ è un’assoluta fesseria, perché l’allenatore allena e basta; ma è chiaro che ci sono delle situazioni in cui le relazioni diventano fondamentali. Parliamo di un allenatore, quindi di una guida, che deve essere riferimento di un gruppo e deve relazionarsi, ascoltare, essere nelle condizioni di avere empatia; ma tutto questo è in funzione del lavoro in campo. Da un certo punto di vista l’allenatore ascolta i giocatori ma non è una balia, uno che cura le dinamiche personali ed è la persona che ha il compito e la responsabilità di ascoltare i bisogni personali per metterli in relazione con i bisogni del gruppo. Da questo punto di vista il lavoro è anche questo ma è soprattutto il lavoro che si fa in campo che fa la differenza e permette ad una squadra di raggiungere un obiettivo. Lo ribadisco per me l’‘allenatore-psicologo’ è una fesseria”.

Quindi un atleta si può allenare solo nella testa o nel fisico, oppure si lavora sempre nella sua interezza?
"Credo che da un punto di vista anche biologico noi siamo degli organismi che non sono assemblati per comparti stagni. Siamo un tutt’uno, tutto è in relazione tra di noi e noi siamo in relazione con le persone e l’ambiente che ci circonda. Da questo punto di vista è chiaro che il giocatore è composto da una sua parte tecnico-tattica e fisica ma soprattuto emotiva: ogni cosa influenza l’altra e l’emotività influenza il lavoro in campo. Ecco perché ogni tanto si fa un po’ di confusione e si traduce l’emotività con un discorso basato sul fatto che un allenatore debba essere uno psicologo: è una questione legata alla capacità di rispettare l’emozione della persona con cui lavori perché, probabilmente, ci sono dei periodi di alti e bassi, si può peccare d’insicurezza o ci sono dei periodi di difficoltà fuori dal campo. La capacità di ascoltare, di raccogliere i bisogni ti dà l’opportunità e la dimostrazione al giocatore che tu sei interessato a lui in quanto persona ma tu sei la guida del gruppo e devi far capire che gli obiettivi e i bisogni del singolo devono essere messi in relazione con quelli del gruppo, perché al di sopra del gruppo non c’è nulla. Ma è anche vero che il gruppo è formato da singoli elementi, quindi quanto il singolo serve al gruppo tanto il gruppo deve servire al singolo. Si parla sempre di ‘noi’, abbiamo bisogno di ascoltare anche il singolo ma il lavoro più grosso resta sempre quello del campo. È un po’ come quando si studiano i meccanismi energetici, c’è quello aerobico, anaerobico lattacido e quello alattacido: non ci sono tre pulsanti per cui io ne aziono uno premendo, quindi i meccanismi sono sempre in sinergia. Noi li impariamo suddividendo ma tutto è unito".

Oggi c’è sempre più attenzione e cura nella comunicazione: in che modo si lavora sia su quella esterna che interna per essere sempre credibili e non banali con il proprio gruppo?
"La comunicazione è legata alle nostre azioni, se uno riesce a parlare di una cosa e a farla vuol dire che sei in perfetto equilibrio. Sei sereno, sei felice. La coerenza che dimostri in funzione di questo viene automaticamente riconosciuta. Un concetto di leadership importante, ovvero quello di saper preparare altre persone ad andare avanti con le proprie gambe, a ragionare con la propria testa e a risolvere problemi in campo e fuori; ma vale fino ad un certo punto. Bisogna essere in grado di staccarsi quando è il momento per vedere a che punto sono le cose per intervenire quando c’è bisogno. All’atto pratico è sempre l’equilibrio che fa funzionare tutto. La comunicazione, di fatto, è la chiave che ti permette di trasmettere come tu sei. La prima cosa è capire chi sei e per cosa sei portato, come fare le cose in maniera naturale: per questo conoscersi diventa fondamentale. Serve per semplificare i passaggi di consegna e non servono sempre molte parole: l’autenticità e la coerenza sono due pilastri fondamentali oltre al fatto di restare sempre se stessi, anche a costo di sbagliare. Questo fa la differenza".

Lei ha utilizzato spesso il 3-5-2 nelle ultime esperienze ed è un modulo che trova sempre più riscontri in questi ultimi anni: prima si diceva che con la difesa a 3 non si ottenevano risultati ma più di una squadra ha vinto così, in Italia e in Europa. Qual è il suo punto di vista?
“Da un punto di vista tecnico-tattico bisogna partire da un presupposto: in Italia c’è una varietà di sistemi di gioco superiore rispetto ad altri campionati europei. Dico questo perché siamo andati a vedere molte volte partite di altri tornei e ci confrontiamo spesso con altri allenatori. Mi viene sempre in mente la chiacchierata che feci con Simeone quando allenava a Catania e poi andai a trovarlo all’Atletico: al di là e al netto delle idee di calcio, la prima cosa che mi disse è che lui imparò molto in Italia perché lì non devono dedicare molto tempo alla fase di non possesso mentre qui da noi gli capitava molto di più. La cosa che mi ha colpito è che un allenatore del genere abbia avuto una palestra da un punto di vista tattico incredibile da noi. Io parto dal presupposto che il 3-5-2, 3-5-1-1 o il 3-4-1-2 non li vedo come numeri e basta perché nel corso della mia carriera ho dovuto sviluppare una metodologia che mettesse nella condizione le squadre che allenavo di osservare dei principi in fase di costruzione, sviluppo e rifinitura. Allo stesso tempo che avesse dei compiti specifici nelle tre altezze di campo in base ai vari pressing (ultraoffensivo, offensivo e difensivo). Questo da una parte è stata una grande fortuna perché abbiamo uno staff molto completo, che negli ultimi due anni ha inserito anche un ex calciatore importante come Simone Barone, ed è molto competente. Abbiamo ideato una piattaforma, grazie a Kama Sport, che ci permette di monitorare tutti gli allenamenti che facciamo in base ai dati che inseriamo. Di valutare e di cambiare. Sotto questo punto di vista siamo competitivi ma non ci basta perché vogliamo capire e sperimentare, cosa che ci piace particolarmente. La metodologia che abbiamo ideato era, intanto, di capire se funzionava nelle varie categorie e ci ha dato ragione: da un altro punto di vista non potevamo sempre scegliere i giocatori per nome ma dovevamo fornire delle caratteristiche per valorizzare quelli già esistenti. Questo ci ha permesso di adattarci al materiale umano e tecnico a disposizione. Sostanzialmente noi abbiamo usato tutti i sistemi di gioco, dagli inizi al Lumezzane agli ultimi anni: è chiaro che molte squadre degli ultimi anni, vedi il Genoa, il Torino e la Salernitana; tranne a Crotone (dove giocavamo 4-2-2-2) ci siamo basati sulle caratteristiche dei giocatori e concentrarti su quello. All’inizio basta mettere in relazione i pregi dei giocatori per fare un passo avanti, poi nell’annata abbiamo cambiato modo di stare in campo. Se noi potessimo scegliere, abbiamo sperimentato che i sistemi di gioco che prevedono la linea difensiva a 4, con 3 centrocampisti e 3 attaccanti oppure con 4 centrocampisti e 2 attaccanti occupano sicuramente meglio il campo. È anche vero che una linea difensiva a 3, che possa essere libera di trasformarsi a 4 oppure attaccare in un modo e difendere in un altro, ti porta quasi sempre ad occupare il campo come se fosse un 4-4-2. Stiamo sperimentando e studiando il modo di pressare l’avversario e siamo convinti che tutte le squadre, quando la palla ce l’ha un determinato giocatore, adottano tutte lo stesso schema di gioco. La cosa importante, secondo me, è abituare il giocatore agli spazi e al ruolo come funzione e non come diritti/doveri. Ad oggi, complice anche un’abilità diversa e il gioco che si è evoluto nel tempo, porta il giocatore moderno ad avere una presa di coscienza rispetto al ruolo che non è più quella di una volta. Anche se il tempo sta dicendo che negli ultimi anni le squadre stanno tornando a difendere con un punto di riferimento più sull’uomo che non rivolta allo spazio. Io credo che l’Italia e la Serie A, da questo punto di vista, sia sempre particolarmente qualitativa nel fornire idee; forse dovremmo migliorare la velocità del gioco, la capacità di essere più aggressivi e una cultura sportiva che ci permetta di subire anche qualche sconfitta più eclatante se si vuole rendere il gioco più avvincente. Se si va a vedere alcuni campionati europei il numero di transizioni e la capacità di ribaltare l’azione è nettamente superiore: il nostro campionato è improntato ad un possesso palla che si fa per cercare di risalire e non perdere compattezza, questo ti permette di gestire ma non porta altro. Io credo che non sarà ancora così per molto perché la gente ha una nuova idea di calcio e il concetto sia proprio legato alla capacità su come si ribalta un’azione o alla capacità di tornare al concetto di duello. Da questo punto di vista deve essere abile nell’uno contro uno, oltre ad essere consapevole di potersi trovare ad attaccare in un ruolo e difendere in un altro, e viceversa”.

Perché non abbiamo più gente che salta l’uomo in Italia, o comunque sono meno rispetto a qualche anno fa?
“I giocatori ci sono ma, per quella che è la mia esperienza girando un po’, fin da piccoli non si lasciava la libertà e c’era sempre un richiamo perché le linee guida erano quello. Ora probabilmente qualcosa cambierà ma forse bisognerebbe lasciare fare il proprio percorso ai bambini. Per quelli dai 5 agli 8 anni deve essere improntato esclusivamente sull’uno contro uno offensivo e difensivo, senza dargli troppe conoscenze su come debba relazionarsi con un compagno. Per me è importante che un giovane giocatore di quell’età passi a quella successiva con una capacità assoluta nell’uno contro uno, perché ci sono dei principi che lo aiuteranno a relazionarsi al meglio anche con i compagni e con un reparto“.

Nelle ultime stagioni sempre più squadre ‘piccole' hanno cambiato il loro atteggiamento e se prima c’era più attesa e ripartenza ora c’è voglia di avere la palla e pressano di più. Lei come vede questa inversione di tendenza?
“Io credo che questo sia un percorso anche di cambiamento culturale. Ai tifosi non basta più l’impegno ma vogliono giocarsela, un concetto che non ha a che fare solo con le abilità individuali ma l’idea di identità e di organizzazione permette non sempre al più forte di vincere. È chiaro che se ci si rapporta con giocatori molto forti e non si sviluppano le capacità, il tifoso non lo porti nemmeno a sognare. Un cambiamento culturale sia quello di volersela giocare, ma chiaramente bisognerà fare i conti con le strategie e le qualità a disposizione: se io applico le stesse strategie come il Manchester City ma ho caratteristiche diverse e qualità inferiori, molto probabilmente non la porterò a casa. Bisognerà fare delle valutazioni ma senza mai rinunciare alla volontà di vincere".

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Ha preso spesso squadre in corsa: come cambia il lavoro per un allenatore quando arriva da subentrato rispetto a quando comincia la stagione dall’inizio?
“Non cambia la metodologia, che nei principi resta uguale. Cambiano le priorità. Se io ho la possibilità di iniziare da un ritiro ho un tempo a disposizione, anche se pure questo è cambiato molto per tante squadre non hanno la rosa al completo nel primo ritiro e spesso nemmeno dopo il secondo: quindi se hai una squadra con cui hai lavorato un anno puoi ripartire da concetti già conosciuti per integrare poi i nuovi arrivi ma comunque si lavora sempre con chi c’è a disposizione per poter condividere il percorso di costruzione di un percorso. Poi c’è il concetto di verifica in progressione. Noi l’anno scorso abbiamo fatto un pre-campionato straordinario incontrando anche squadre forti ma poi di quella squadra lì alla prima partita di campionato il 60% dei calciatori erano andati via e ne erano arrivati altri. Ogni periodo nasconde vantaggi e svantaggi. Quando subentri sicuramente devi fare un lavoro di analisi molto approfondito, valutando la squadra a disposizione e ciò che è stato l’operato singolo e di squadra. Prima di tutto c’è un lavoro di analisi, di conoscenza individuale e di gruppo; che ti porta a definire le priorità di lavoro. Nel momento in cui si percepisce un cambiamento è molto soddisfacente e prosegui provando a fortificare le certezze e immettendo principi pian piano. Diventa un lavoro basato sulle priorità e si struttura il lavoro fatto durante la settimana in relazione all’avversario che incontrerai“.

Sabatini a Fanpage.it ha detto che in una situazione complessa come quella della Salernitana di due anni fa nel suo ruolo non c’è un piano ma si lavora in maniera ‘febbrile’ puntando sulle ‘motivazioni’. Ci racconti, invece, il suo punto di vista su quella situazione.
“Dal mio punto di vista non è stato solo una questione di motivazioni perché la gran parte del lavoro che noi abbiamo svolto lo abbiamo fatto sul campo e a livello tecnico-tattico. Ciò che conta è avere un ambiente che adotti un comportamento, compattandosi e allineandosi, provando a fare il meglio in ogni ambito. Niente aspettative o cose che in quel momento non hanno senso, tutti concentrati sul proprio lavoro. Questo ha un potere incredibile e dove l’abbiamo sperimentato ha dato sempre buoni frutti".

Esistono i ‘giochisti’ e i ‘risultatisti’, oppure è una polemica solo mediatica?
“È una narrazione che sicuramente dà la possibilità di far parlare più persone e di dibattere in qualsiasi tipo di media. Il calcio è uno sport talmente bello e particolare che poi paradossalmente riduciamo tutto a vedere sempre e solo chi vince, facendo un errore madornale. I risultati sono tanti e sono diversi: è chiaro che se hai a disposizione un bacino di utenza incredibile e un budget superiore alla norma, con possibilità di accedere ai calciatori migliori; è normale che tu concorrerai per certi obiettivi. Ci sono squadre che continuano a vincere senza portare a casa lo Scudetto: a me viene in mente l’Udinese, che da più di vent’anni porta alla ribalta tanti calciatori importanti. Ma ce ne sono diverse. A prescindere da quello, con il mio gruppo di lavoro abbiamo raggiunto gli obiettivi chiesti e quando una società ti chiede qualcosa e viene portata a termine può essere vista come una situazione di successo. È chiaro che io non ho ancora vinto un campionato ma non ho ancora allenato una squadra che potesse farlo. In alcune situazioni mantenere la Serie A è qualcosa di inspiegabile perché permette di mantenere introiti, valutazioni e rivalutazioni che hanno un peso specifico enorme. Secondo me, in Italia, ci dobbiamo un po’ liberare da alcune cose e migliorare la cultura sportiva perché ci sono diversi tipi di successo".

La costruzione del basso viene spesso criticata e vista come ‘una moda’. Lei cosa ne pensa?
“Il problema nasce dal fatto che ci si diverte più a narrare questo tipo di situazioni ma la costruzione dal basso è sempre esistita. Chiaramente si è modificata. È una strategia la costruzione dal basso e dipende dal tipo di narrazione che si fa. Nel mio caso solitamente preferisco che i miei giocatori costruiscano cercando una superiorità numerica in base a come ci attaccano gli avversari. Per me ha un senso molto specifico per portarla più velocemente possibile nell’ultimo terzo di campo: io parto dal presupposto che quando vado a vedere le partite le persone si divertono di più quando il gioco è veloce, con la conquista degli spazi o l’aggressione, e da questo punto di vista è fondamentale. Poi può essere legata a come ci attaccano gli avversari: possiamo scegliere di farlo a 3 o a 4, se abbassiamo un centrocampista o ne facciamo sfilare un altro, saltare la prima pressione perché vengono uomo contro uomo e andiamo diretti sugli attaccanti. È sempre e solo in funzione di portare la palla nell’ultimo terzo di campo il più alto numero di volte possibile. Questo è difficile farlo subentrando mentre quando lavori dall’inizio hai più tempo a disposizione per trasmettere i principi, lavorando sulla consapevolezza e sul coraggio”.

In che modo si allenano calciatori del livello di Pandev e Ribery?
“Io ho avuto l’opportunità di allentare campioni straordinari come loro, oppure come De Paul, sui quali l’allenatore non deve neanche utilizzare risorse o sprecarne. Hanno un’abilità nel desiderare sempre nuovi traguardi che a loro serve solo la guida che gli permetta di raggiungerli. Sono calciatori che ti risolvono le difficoltà e non te le creano”.

Davide Nicola è pronto per una nuova avventura?
“Certo che sì, studio per tornare in pista e studio per darmi sempre nuovi obiettivi. Non vivo tutto questo con bramosia perché sono convinto che ogni tanto guardare le cose da un’altra angolazione possa portare nuove idee. Il mio habitat è il campo".

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