Bortolo Mutti oggi: “Mi godo la campagna. Col primo stipendio presi la sala da pranzo a mia madre”

Bortolo Mutti non è stato solo un centravanti dal fiuto del gol, ma un uomo capace di leggere il calcio con lucidità e pragmaticità. Cresciuto tra Massese, Pescara e Catania, ha costruito la sua carriera con la tenacia di chi sa cosa significa sudare per ogni vittoria, prima da giocatore e poi da allenatore. Dall’Atalanta, dove diventò simbolo e capitano, alle sfide sulle panchine di Messina, Palermo e Bari, Mutti ha sempre lasciato il segno: promozioni memorabili, salvezze insperate, squadre plasmate con la sua idea concreta di calcio.
A Fanpage.it Bortolo Mutti racconta i retroscena delle sue stagioni più intense, le gioie e le difficoltà, e ciò che significa davvero vivere il calcio da dentro, sul campo e in panchina.
Mister Mutti, come va la vita oggi lontano dalle panchine?
"Bene, dai, non mi lamento. Faccio un po’ di campagna, mi godo la famiglia, i figli e i nipoti. E ovviamente tengo sempre un occhio sul calcio, perché quello non si stacca mai".

Lei ha iniziato da giocatore nel settore giovanile dell’Inter. Che ricordo ha di quegli anni?
"Bellissimo. Dal ’69 fino al ’77 sono rimasto nell’organico dell’Inter. Poi, con l’arrivo di Altobelli, fui inserito nell’operazione che mi portò a Brescia insieme a Cavallo e al portiere Martina. Erano anni di crescita, di sogni e sacrifici".
Il suo legame più profondo resta quello con l’Atalanta. Cosa rappresenta per lei?
"È un rapporto viscerale. Sono bergamasco, cresciuto con l’amore per l’Atalanta. Quando accettai di ripartire dalla Serie C con Bortolotti, rinunciando alla B, fu una scelta di cuore. In tre anni riportammo la squadra in Serie A: un periodo indimenticabile".
Che tipo di presidente era Cesare Bortolotti?
"Un presidente ‘di famiglia'. Viveva la squadra con senso di responsabilità verso Bergamo. Oggi nel calcio ce ne sono pochi così: De Laurentiis, forse qualche altro. Ora prevalgono fondi e società anonime, meno persone vere".

La sua carriera da allenatore nasce quasi per caso, da giocatore-allenatore a Palazzolo.
"Esatto. Dovevo solo finire la carriera, ma la squadra andava male e mi affidarono anche la Berretti. Mi venne voglia di allenare, riorganizzai il settore giovanile e poi iniziai ufficialmente dopo il corso a Coverciano. Da lì è partita la mia seconda vita".
Ha allenato in quasi tutte le categorie. C’è una piazza che le è rimasta nel cuore?
"Bergamo, ovviamente. Ma anche Messina e Cosenza mi hanno dato tanto, come rapporti umani e passione. E poi Piacenza: con la famiglia Garilli e quel clima sereno, arrivammo a una salvezza storica in Serie A".
Lo spareggio col Cagliari del ’97 fu un momento storico. Che ricordo ha di quella partita?
"Un silenzio quasi religioso nello spogliatoio. Dissi solo: ‘Ragazzi, è una partita di calcio. Andiamo e vinciamo'. E così fu: 3-1, una gioia immensa. Quei momenti non si dimenticano".
A Messina, invece, è stata una delle sue squadre più spettacolari…
"Sì, costruimmo un gruppo eccezionale. Dalla B all’ultimo posto fino alla promozione e poi il settimo posto in A. Battemmo anche il Milan a San Siro. Avevamo giocatori straordinari, gente come Zampagna, Sullo, Di Napoli. A Messina ho lasciato un pezzo di cuore".

Uno dei protagonisti di quella squadra era Parisi, un terzino moderno ante litteram.
"Verissimo. Era un esterno completo, ricordava un po’ Maldera. Aveva tecnica, tiro, personalità. Forse gli è mancata un po’ di cattiveria, altrimenti avrebbe fatto una carriera ancora più grande".
C’è un episodio della sua carriera che le ha lasciato l’amaro in bocca, che considera una potenziale ‘sliding doors'?
"Sì, quella partita Cosenza–Chievo a Verona. Stavamo lottando per la Serie A, ma perdemmo e da lì ci sfuggì il sogno. È ancora una ferita: il Cosenza in Serie A sarebbe stato storico".
Parliamo di attualità: come vede la nuova Atalanta di Juric dopo l’era Gasperini?
"Con fiducia. Juric ha saputo entrare in punta di piedi, senza imitare nessuno. Ha carattere, lavora tanto e ha conquistato il rispetto di tutti. A Bergamo non era facile, ma sta costruendo qualcosa di solido".
Che idea si è fatto del campionato di Serie A di oggi?
"È equilibrato e per fortuna non c’è una squadra già padrona. Il Napoli è favorito, ma anche Inter e Roma possono dire la loro. È un torneo aperto, e questo lo rende affascinante".

Lei è stato protagonista di un calcio diverso, cosa è cambiato davvero rispetto ad allora?
"Tutto. Prima c’erano più valori, più rapporti umani. Oggi è un mondo amplificato: agenti, social, soldi. Il calcio è diventato uno specchio della società, con le sue ossessioni e le sue frustrazioni. Ma alla fine il pallone resta il pallone: se lo ami, lo capisci sempre".
Si ricorda la prima volta che ha giocato a calcio?
"Eccome! Il provino all’Inter, al campo Radaelli. Mi portarono degli osservatori, feci un gran provino e non mi fecero uscire dallo spogliatoio finché non firmai. Con i primi soldi comprai la sala da pranzo a mia mamma. Era il suo sogno".
Cosa resta, mister, dopo una vita nel calcio?
"Restano i rapporti, le emozioni, gli spogliatoi, i volti dei ragazzi. Il calcio cambia, ma il sentimento resta identico: la voglia di giocare, di vincere, di stare insieme. Quella non passerà mai".