Beppe Incocciati: “Maradona venne da me e si riavvicinò al figlio, fu un momento pieno di umanità”

Da calciatore a uomo delle istituzioni, senza mai abbandonare lo sport. Giuseppe Incocciati ha attraversato il calcio italiano da protagonista, dagli anni duri del Milan pre-Berlusconi alle magie accanto a Diego Armando Maradona a Napoli, fino ad approdare oggi in un ruolo di responsabilità come consigliere del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, per lo Sport e le Politiche giovanili. Con la lucidità di chi ha vissuto il campo e conosce i meccanismi dello spogliatoio, Incocciati riflette sul valore educativo dello sport, sul calcio moderno e sulle sue derive, ma anche sui ricordi più intensi della sua carriera: gli anni difficili del Milan, l’esperienza con il presidente Rozzi ad Ascoli e con Anconentani a Pisa, il legame umano con Maradona e l’incontro con Pelé.
A Fanpage.it Giuseppe Incocciati si racconta tra passato e presente: dalle esperienze con Milan e Napoli ai campi di periferia, dai gol in Serie A alla collaborazione con la Farnesina.
Giuseppe Incocciati dal campo di calcio alla Farnesina: di cosa si occupa esattamente?
"Sono consigliere del vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, con delega allo sport e alle politiche giovanili. È un ruolo che mi permette di restare vicino a un mondo che conosco bene e che considero fondamentale per la crescita dei giovani".
In che modo lo sport può davvero aiutare le nuove generazioni?
"Lo sport è una scuola di vita. Insegna il rispetto per gli altri, per le regole, per le gerarchie. Ti forma come uomo, ti educa alla resilienza: quella capacità di reagire alle difficoltà, rialzarti dopo una caduta e ripartire. È una lezione che vale nello sport, nella scuola e nella vita".

Più difficile il calcio o la politica?
La vita è tutta complicata: dipende da come la affronti. Se hai equilibrio e rispetto per gli altri, funziona in ogni campo — nello spogliatoio come in politica. Il problema nasce quando qualcuno pensa di avere sempre ragione. L’assolutismo non porta da nessuna parte.
Torniamo agli inizi: dal Palestrina al Milan. Come avvenne quel salto?
"Giocavo nei campi di periferia quando fui notato da uno scout, Dante Larena. Mi propose un provino con il Milan e andò bene. Così è cominciata la mia carriera. Purtroppo Larena oggi non c’è più, ma gli devo tanto: senza di lui non sarei arrivato lì".
Cosa ricorda del suo esordio in rossonero?
"Furono anni difficili, il Milan non era ancora quello vincente di Berlusconi. Ma gettammo le basi per la rinascita: tornammo subito in Serie A e conquistammo la qualificazione in Coppa UEFA. Poi arrivò la nuova era, e io passai all’Atalanta. Ma resto orgoglioso di aver fatto parte di quel gruppo".
Chi, tra i compagni del Milan, le è rimasto nel cuore?
"Ho avuto la fortuna di dividere lo spogliatoio con campioni veri: Rivera, Baresi, Collovati, Maldera, Bigon, Novellino… E nella mia carriera ho giocato con i più grandi di sempre, da Pelé a Maradona. Non credo si possa chiedere di più".
A proposito di Maradona: che rapporto aveva con lui?
"Un legame profondo, umano prima ancora che calcistico. Eravamo due scorpioni, ci capivamo al volo. Giocare con Diego significava anche entrare nella sua mente calcistica: capire quando voleva il pallone, dove muoverti, come restituirglielo. Per farlo servivano doti tecniche e sensibilità particolari".

È vero che lei ebbe un ruolo nella riconciliazione tra Maradona e il figlio Diego Junior?
"Sì, accadde a Fiuggi. Diego venne a trovarmi e in quell’occasione ci fu il riavvicinamento con il figlio. Fu un momento molto bello, pieno di umanità. Io ho solo favorito l’incontro, ma il grande gesto fu il suo: dimostrò di avere un cuore enorme".
Lei ha conosciuto presidenti ‘unici' come Rozzi e Anconetani. Che ricordo ha di loro?
"Erano figure paterne. Rozzi, ad Ascoli, incarnava la passione e la riconoscenza verso la sua città: costruì uno stadio con le proprie mani. Anconetani, a Pisa, era diverso, più focoso, ma con la stessa dedizione. Oggi quel tipo di presidente non esiste più, ed è un peccato".
Che differenze vede tra il calcio di oggi e quello della sua epoca?
"Allora avevamo due Mondiali vinti e un movimento che faceva sognare. Oggi rischiamo di non qualificarci per la terza volta. Manca la qualità tecnica e, soprattutto, la passione. Il calcio non può essere solo schemi e studio: è istinto, creatività, talento. E questi non si insegnano sui libri".
Lei ha allenato anche a livello giovanile. Cosa è cambiato nei ragazzi di oggi?
"La fame. Noi sognavamo di giocare, non di diventare ricchi. Oggi molti vedono nel calcio solo un mezzo per guadagnare. Ma senza passione non si va lontano. I sogni non hanno prezzo: sono la forza che ti spinge avanti. Se togli quello, resta solo un mestiere".

Da opinionista televisivo, quanto è diverso leggere il calcio da fuori rispetto a viverlo in campo?
"Molto diverso. Io parlo con cognizione di causa: sono stato calciatore e sono allenatore, quindi conosco la materia. Quando commento, cerco di spiegare i movimenti, le scelte, le letture di gioco. Non basta dire “che bello” o “che errore”. Il calcio va capito, non solo guardato".
Guardando indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe?
"No. Credo che tutto avvenga per volontà di Dio. Non ho rimpianti. Ho iniziato con Pelé e chiuso con Maradona: non ho vinto un Mondiale, ma ho vissuto un calcio che non tornerà più".
Un’ultima curiosità: qual è stato il primo consiglio dato al ministro Tajani?
"(Ride, ndr) Nessuno. Lui è un uomo preparatissimo, da cui ho solo da imparare. Ma condividiamo la stessa visione: lo sport come strumento di diplomazia, crescita e orgoglio nazionale".