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Il tifoso, il bambino e il calciatore

La presenza di Napolitano durante Italia – Spagna, i calciatori in mutande, il riscatto sociale e la passione per la Nazionale: siamo proprio un Paese che riesce a dividersi su tutto. Ma ci salveranno…
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Tifoso-ItaliaSpagna

Nel Paese dei 60 milioni di commissari tecnici non dovrebbe sorprendere quanto successo in questi giorni, con le (solite) polemiche intorno alla Nazionale di calcio, con il (classico) fuoco incrociato e preventivo su calciatori, dirigenti ed arbitri e l'immancabile "presa di distanza" dei professionisti dell'anticonformismo rispetto allo "spettacolo inutile" e per giunta in tempo di crisi. Ed infatti, quello cui stiamo assistendo in questi giorni è il solito teatrino delle ombre cinesi. Quello in cui a Napolitano, che assiste quasi come da prassi alla partita della Nazionale, si chiede se una vittoria in campo possa "rappresentare un simbolo per un Paese in difficoltà", come se la crisi del debito fosse un'entità compassionevole e pronta a commuoversi di fronte "alle imprese di undici giovanotti in mutande". Quello in cui senza soluzione di continuità si ripescano nel solito archivio i soliti paragoni con i soliti risultati.

La parola crisi significa anche opportunità. Una frase buona per ogni evenienza, un luogo comune "romantico e poco impegnativo" che ad ogni giro di ruota viene riproposto ai telespettatori indifesi. Ai quali tocca sorbirsi ogni santissima volta la favola della compagine che si esalta nelle difficoltà, dei trionfi che nascono dalle ceneri, per giunta avvalorati dagli "esempi clamorosi" del 1982 e del 2006. Poi, poco importa che laddove "l'attesa dello sperimentatore" viene delusa intervenga sempre la memoria debole, che rimuove, cancella e riposiziona le sciocchezze dette e ripetute. Insomma, una concezione capovolta della realtà dove c'è chi si spinge quasi a sperare di arrivare agli appuntamenti cruciali con l'acqua alla gola,  anche perché "noi italiani…" (e via secondo un canovaccio che ci sembra finanche superfluo ripetere).

L'inno, l'unità nazionale, l'ipocrisia al potere – Potevano mai mancare le inevitabili infinite discussioni sull'inno nazionale, su quanto e come i calciatori riescano a cantarlo, sull'appartenenza nazionale declinata su un campo di calcio? Figurarsi. E allora va bene, non ci sottraiamo neanche noi. Dicendo che conoscere l'inno non è un vanto. E che se un calciatore viziato e arrogante lo canta, resta un calciatore viziato ed arrogante. E che se il nostro calcio in questo momento fa schifo, ammetterlo non mette in discussione il nostro patriottismo. Lo stesso patriottismo che dovrebbe entrarci poco o nulla con quello che è e resta un gioco, uno sport, sia pure caricato all'estremo di emozioni e passioni. E non sembri la solita marginalizzazione pseudo intellettuale della passione di tanti italiani verso un gioco che per tanti versi rimarrà "parte di noi", con momenti che segneranno in maniera indelebile il nostro diario "esistenziale". Questa vuole essere l'esaltazione del calcio visto con gli occhi dei bambini. Con gli occhi di chi riesce a trovare bellissimo lo sventolare delle bandiere prima della gara, di chi esulta e si emoziona per un gol e si rattrista per una sconfitta. Di chi confina idoli e modelli in un preciso arco temporale e, per così dire, mentale. Ma di chi sa, anche inconsapevolmente, che oltre quel rettangolo verde c'è tutto un mondo, che sotto il colore delle maglie ci sono gli stessi sogni, le stesse speranze, le stesse aspirazioni. Con gli occhi di chi ancora riesce a fregarsene delle dichiarazioni pre – partita e delle polemiche sui rigori; di chi proprio non capisce che senso abbia fischiare un inno nazionale; di chi non meriterebbe di essere deluso dagli incontentabili del profitto. Insomma, noi che il calcio vorremmo odiarlo abbiamo ancora una possibilità.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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