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Proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini

Alessandra Campedelli racconta l’addio all’Iran: “Vivevo in una cameretta senza internet né libertà”

Alessandra Campedelli era la CT della nazionale di volley femminile in Iran ma dopo un anno ha deciso di tornare in Italia perché non voleva più lavorare con una federazione che nega le proteste e sostiene il governo: il racconto della sua esperienza a Fanpage.it.
A cura di Vito Lamorte
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“La federazione negava tutto ciò che stava accadendo intorno a noi, faceva capo ad un governo che non ha rispetto per i diritti di nessuno. Per me era diventato inaccettabile stare lì e lavorare per chi negava l’evidenza”. Così Alessandra Campedelli ha iniziato il suo racconto e ha motivato la scelta di lasciare il posto da l’allenatrice capo della nazionale femminile iraniana di pallavolo. 

La 48enne originaria di Mori in Trentino ha scelto di lasciare l’Iran dopo quanto accaduto nel paese in seguito alla morte di Mahsa Amini, ragazza prima arrestata perché accusata di aver indossato in modo errato l’hijab e successivamente ammazzata dopo un pestaggio da parte della polizia.

L’ormai ex tecnico della nazionale iraniana si è soffermata sulle problematiche vissute a Teheran, delle tante promesse disattese dalla federazione e di come ha vissuto la differenza di trattamento con i colleghi uomini: "Il presidente della federazione, ad esempio, il giorno del suo compleanno ha fatto foto solo con i maschi. Mi sono imposta per farmi una foto anche io, ma era per principio e non perché volevo essere immortalata con lui a tutti i costi".

Ai microfoni di Fanpage.it l’ex CT della nazionale di volley femminile iraniana ha raccontato la sua esperienza e il motivo per cui dopo un anno ha deciso di non volere più lavorare con una federazione che negava le proteste e sosteneva un governo che non rispetta i diritti di nessuno.

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Dopo un anno e risultati interessanti con la nazionale iraniana ha deciso di non accettare il rinnovo: ci spiega il motivo della sua scelta?
"La scelta è stata fatta perché la federazione negava tutto ciò che stava accadendo intorno a noi, quindi faceva assolutamente capo ad un governo che non ha rispetto per i diritti di nessuno. Per me era diventato inaccettabile stare lì e lavorare per chi negava l’evidenza. I risultati non sono mai entrati in questa decisione perché loro chiedevano cose inarrivabili e il secondo posto ai giochi islamici era stato già straordinario, ma loro volevano semplicemente far scorrere via le cose senza che nulla cambiasse: a riprova di questo è la chiamata alla guida della nazionale di una coach che era lì prima di me e questo fa capire la voglia di non cambiamento che c’era. La mia chiamata era stata solo di facciata".

Le proteste dopo la morte di Mahsa Amini e la situazione che si è creata nel paese hanno influito sulla sua decisione?
"In realtà intorno a noi dicevano che non stava accadendo nulla ma per me è stato un punto di rottura. La situazione è cambiata sotto tutti i punti di vista, anche perché hanno tolto Internet e io non potevo muovermi dal campus liberamente come avrei voluto perché avrei rischiato di perdermi a Teheran e dopo le quattro del pomeriggio era sconsigliato di uscire. Con una situazione così i rapporti con le altre nazionali sarebbero certamente cambiate e non aveva più senso. La federazione comunque negava tutto e diceva che le proteste c’erano ovunque ma a noi non ci condannano a morte se protestiamo in strada, mi pare una bella differenza. Per me non era più sostenibile e mi sentivo in difficoltà".

Com’era la sua vita all’interno del Centro Olimpico Azadi?
"Io ho vissuto quest’anno in una cameretta 3×3 e con una televisione in cui vi erano solo canali in lingua farsi e non avevo accesso a nulla. Poi mi hanno tolto Internet e non avevo nemmeno le uniche fonti da cui apprendere qualcosa. Non avevo più la mia libertà".

È una scelta che rifarebbe?
"Io sarei ancora disponibile a tornare in Iran ma con la situazione così evidentemente no. L’Iran è un paese fantastico ma non mi è stato permesso di fare nulla".

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In Iran c’era passato Julio Velasco prima di lei: le aveva dato qualche dritta o lei le aveva chiesto consigli?
"Io avevo parlato molto con lui, anche perché era stato lui che aveva fatto il mio nome. L’ho sentito e mi ha detto che la situazione era molto diversa da quando era andato lui ma bisogna sottolineare che il trattamento tra uomo e donna è sempre diverso. Io non sono mai stata trattata come l’allenatore della nazionale maschile e le posso fare l’esempio dell’allenatore in seconda Tomaso Totolo: io vivevo nella cameretta e lui stava nell’hotel olimpico a 5 stelle".

Anche se stiamo parlando di due mondi diversi, anche da noi le cose non brillano visto che nelle squadre di A1 e A2 non ci sono allenatrici e collaboratrici negli staff tecnici: perché secondo lei?
"Se io sono andata in Iran anche questo è uno dei motivi: noi abbiamo molte meno occasioni e opportunità di allenare rispetto ad un uomo a parità di competenze. Io non sono per le quote rosa ma voglio avere le stesse possibilità: se dovessi fallire lo faccio in quanto allenatrice e non in quanto donna. Nei giorni scorsi una squadra di A3 ha chiamato una donna come secondo allenatore, ma si tratta di un unicum".

Dopo questa esperienza, da insegnante, cosa direbbe ai nostri ragazzi? 
"Io parlo della mia esperienza e mi piacerebbe far capire che i diritti che sono stati conquistati dai nostri nonni non sono scontati e non dobbiamo fermarci, perché dobbiamo creare una società che si evolva anche in altre direzioni. Noi diamo tutto per scontato ma non è così. Ho visto ragazze che avevano paura di andare in strada col velo fuori posto mentre noi possiamo fare qualsiasi cosa: dobbiamo ricordarcelo sempre".

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