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Opinioni

The Bear 2, la recensione è una conferma: esiste la ricetta per una serie tv cult perfetta

The Bear 2 conferma il miracolo annunciato dalla prima stagione: ancora oggi possono nascere serie tv cult, basta saperne dosare gli ingredienti. Ben lontana dalla classica mattonata che piace solo agli intellettuali gourmet, parla a tutti grazie a una storia di fallimenti e perseveranza che mira dritta al cuore facendo di nuovo centro.
A cura di Grazia Sambruna
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C’è questo diner a Chicago. Cade a pezzi, pare ci siano procioni morti dentro le pareti. The Bear 2 riparte da qui, da questo incubo per raccontare la storia di un sogno e lo fa, grazie al cielo, senza nemmeno un milligrammo di retorica. Da che siamo nati, sentiamo dire, come grande metafora di vita, che l’importante non è la destinazione, ma il viaggio. Non importa raggiungere o meno lo scopo che ci si era prefissati, dunque, perché, dopotutto, andare verso quell’obiettivo arricchisce già di insperate emozioni, rende più saggi e compagnia bella. Chiunque abbia formulato tale detto, con ogni evidenza non ha mai aperto un ristorante.

E forse è proprio questa la forza della serie: ogni personaggio avrebbe almeno tre milioni di motivi per darsela a gambe. Però, non lo fa. Molto spesso senza nemmeno riuscire a spiegarsi come mai. The Bear è una storia di perseveranza, se vogliamo anche di dipendenza, ma positiva. Ogni sciagurato che lavora nel diner vuole vedere le cose andare bene, prima o poi. Nonostante le contingenze prendano a calci qualsivoglia speranza ancora prima che possa nascere. Finché qualcosa ingrana e allora “Ok, adesso non resta che rifarlo un milione di volte e ci siamo”. Sì, chef.

The Bear è una serie disperatissima ma, allo stesso tempo, confortante. Ritroviamo Carmy (Jeremy Allen White, già vincitore del Golden Globe come Miglior Attore Protagonista per la prima stagione) coi suoi occhi enormi e all’apparenza perennemente altrove. Deve gestire questo sfacelo, per farlo gli toccherà imparare a delegare e sperare. Lui è (stato) uno chef stellato in Europa, un enfant prodige, ma oggi è un signor nessuno a cui il fratello Mickey, morto suicida, ha lasciato un pulciosissimo diner pieno di debiti e permessi non accordati dal comune.

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Insieme a una marmaglia di scappati di casa che ci lavora o vorrebbe farlo. The Bear, anche nome del locale il giorno in cui dovesse mai riaprire, non lo lascia in pace mai, così come la serie non molla chi la guarda: ogni dialogo pone almeno quattro questioni urgenti che nessuno ha idea di come risolvere, mentre scatta a vanvera l’allarme antincendio o qualche altra diavoleria e allora per parlarsi c’è da urlare ancora di più. Pochissimo silenzio, ogni scena è un marasma di imprecazioni e malfunzionamenti tecnici, di pareti che crollano, incomprensioni tra chef, risse in famiglia. Volano stracci, da ogni dove e in tutti i sensi. Questo è abbastanza per fermarsi? No.

No perché si sono indebitati troppo per poter mollare davvero. No perché “non credo di saper fare qualcos’altro”. No perché “ho bisogno di uno scopo”. E poi, non da ultimo, sono tutti pazzi, per fortuna, scoppiatissimi. Insomma, ognuno ha il proprio buon motivo per tirare avanti. E la maggior parte delle volte non è che sia granché eroico. Ma realistico, invece, sì. E forse è questo che cattura il cuore dello spettatore: vedere gente che ci prova, contro ogni pronostico, la micragnosa e infinita burocrazia, i passi falsi, gli errori madornali, mentre respira ogni secondo un’aria intrisa di “grandissimo fallimento”. “Grandissimo fallimento” per altro già conosciuto da molto vicino: nessuno della ciurma ha 20 anni, tutti hanno vissuto abbastanza per rimanere segnati dall’onta della sconfitta. Anche più di una volta. E, come se non fossero tormentati da quel ricordo in ogni istante, ci pensano le contingenze, ma anche se non soprattutto le altre persone, specie quelle che stanno a guardare senza fare alcunché della propria vita, a ripetergli che non ne vale la pena perché “ci sei già passato ed è andata male, cercati un lavoro vero, più sicuro”.

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Il rischio sensibile era di trovarsi davanti a una serie osannata dalla critica per la sua complessità, ma in fin dei conti inaccessibile al pubblico. Una mandrakata intellettuale, insomma, una corazzata Potemkin di fronte a cui, però, tocca applaudire per 92 minuti onde evitare di passare per scemi, poco gourmet. Invece The Bear è, a ogni livello, un mirabile promemoria di quanto nessuna scusa sia buona per lasciar perdere. Avere una famiglia sconclusionata e allarmante più di quelle nei film di Muccino, dilaniarsi per amore, sapere che per tutti il proprio nome è associato alla parola “sconfitta”, essere la barzelletta del quartiere. “Ogni secondo conta” e ogni secondo è buono per sovvertire la sorte se ciò che ci anima è una passione viscerale o l'esigenza di trovarla, grande abbastanza da spingere, inesorabilmente, a giocare con le carte che si hanno in mano, per quanto terribili, quando non ridicole. Non è il migliore quello che alla fine ce la fa, ma chi non si arrende. Forse.

Con una pioggia di guest star impressionante (dalle Premio Oscar Olivia Coleman e Jamie Lee Curtis a Will Poulter, Sarah Paulson e Bob Odenkirk), questa seconda stagione vuole prendere a schiaffi chi la guarda. E lo fa eccome. Equivale a un risveglio, spesso anche parecchio doloroso, a colpi di sfighe, brutalità e dialoghi scritti per ferire. L’incessante ricerca di uno scopo fa da fil rouge alla storia di ogni sciagurato personaggio e la schizofrenica colonna sonora che passa come fosse niente da Taylor Swift agli R.E.M. riflette esattamente la magmatica mancanza di equilibrio dell’intera narrazione. Perché l’equilibrio in effetti non c’è, quasi mai, nel mondo reale. Eppure, ci muoviamo.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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