L’influencer Momoka Banana sugli abusi dell’ex: “Non potevo avere amici, mi chiamava muso giallo: credevo fosse colpa mia”

"È passato tanto tempo. Era la mia prima relazione ed è stata un incubo. Mi sentivo così sola. Lui mi manipolava. Ora so che si trattava di una relazione non sana, fatta di abusi e possessività". A parlare a Fanpage.it è Momoka Banana, content creator da 126mila followers su Instagram che ieri, 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza di genere, ha deciso di condividere online la sua storia.
"L'ho sempre fatto, fin da quando ero più piccola. Prima, quando i social non erano così utilizzati, lo facevo tramite un blog. Poi, negli ultimi anni del liceo, c'era Ask.fm: le persone potevano fare domande, anche in anonimo. Me ne sono arrivate diverse anche su questo tema e mi è capitato di parlarne rispondendo – continua – C'è chi mi ha detto che è riuscita ad aprire gli occhi su ciò che stava vivendo grazie alle mie parole. In alcuni casi c'è chi non è riuscito a comprendere che stava vivendo in una relazione abusante finché non ha sentito la mia situazione. Ho compreso presto che avrei potuto essere di aiuto a qualcuno, soprattutto giovanissimi e giovanissime. Così ho continuato a raccontare la mia vita e questa storia, spero di aiutare più persone possibile".
La storia a cui fa riferimento Momoka risale a diversi anni fa. "Avevo 15 anni, ora ne ho 32, lui ne aveva un paio più di me". Ma il dolore a parlarne resta lo stesso. "La relazione è durata due anni e mezzo. In cui mi sentivo sola. Pensavo che nessuno potesse capirmi e che era colpa mia, perché ero stata io a dirgli che l'amavo e a fornirgli una specie di lasciapassare per trattarmi come voleva lui. Pensavo di essermi scavata la fossa da sola. E pensavo che sarebbe durate per sempre, che non ne sarei mai uscita – precisa – Forse se avessi letto storie di ragazze che ce l'avevano fatta avrei avuto un esempio positivo che mi è mancato. Accanto a me, invece, c'era chi non comprendeva la mia situazione. In questi casi ho capito che è importante fare community".
Nonostante la mancanza di esempi positivi intorno a lei, Momoka si è presto accorta di trovarsi a vivere una relazione abusante. "Non la chiamavo così, forse non sapevo neanche che si chiamasse così. All'inizio credevo fosse normale. C'era chi mi diceva che la gelosia era normale perché mi amava. E anche io all'inizio pensavo fosse normale che non mi facesse uscire con gli amici maschi o che non dovessi sentirli, che mi obbligasse a vestirmi in un certo modo, che si arrabbiasse se dimenticavo la fedina che avevamo insieme o se arrivavo in ritardo da lui, anche di pochi minuti. Non potevo viaggiare o andare alle feste senza di lui. Mi dispiaceva un po' non sentire i miei amici, ma dall'altra parte quanto doveva amarmi per volermi tutta per sé e basta? Poi ho capito che non è così che funzionano le relazioni sane".
Oggi Momoka non riesce a sopportare la gelosia o la possessività: "C'è una narrazione tossica dietro. C'è chi pensa che vogliano essere esclusivi perché ti amano. Ma in realtà non è così – continua – Da ragazzina non avevo tanta consapevolezza di una relazione abusante. Non potevo fare niente. E pensavo che avrei vissuto così per sempre". Momoka si sentiva intrappolata. "Mi diceva che non dovevo neanche lavorare, perché ero una principessa. Ma mi sono accorta che ero triste, che mi sentivo in gabbia. E che volevo uscire da una relazione che non mi faceva stare bene".
Quando ha iniziato a maturare l'idea di lasciarlo, però, lui le ha reso le cose più difficili, provando a manipolarla. "Ho provato a lasciarlo dopo 8 mesi di relazione, ma mi sono trovata davanti una scena che mi ha ghiacciato – ha detto – Prima ha iniziato a prendersela con me. Diceva che ero una troia, mi chiamava muso giallo e mi insultava in ogni modo possibile. Le dinamiche delle nostre litigate erano queste, generalmente. Quando ha capito che non mi interessava degli insulti e che ero davvero determinata a lasciarlo ha giocato una nuova carta. Mi ha detto che se non lo avessi raggiunto a casa sua entro l'una si sarebbe ammazzato".
Spaventatissima, è corsa da lui. "Ho pensato che mi avrebbe ucciso. L'ho trovato sul divano, nudo con i boxer con uno sguardo da pazzo, gli occhi sgranati – ricorda – Aveva un coltello in mano e una bottiglia di varechina accanto. Era da solo, i genitori non c'erano. Io l'ho tranquillizzato, gli ho detto che l'amavo. Avevo paura potesse farsi del male. O farlo a me". Era come se non potesse avere scelta. "E non sono riuscita a lasciarlo, anche se volevo".
Nel frattempo, però, i litigi continuavano. "Per diversi mesi, forse un anno, ha continuato a mettermi le mani addosso, minacciava di suicidarsi quando mostravo che ero fredda e che con lui non volevo più starci. Ma io non ne potevo più. Ha capito che non attecchivano più su di me certe intimidazioni. Così ha spostato il focus. Ha iniziato a mettere in atto minacce di un altro tipo, che coinvolgevano altre persone a me vicine. Mi ha minacciato di revenge porn, avrebbe diffuso le mie foto. Mi diceva che gli bastava pochissimo per rovinarmi la vita".
E per un primo periodo è riuscito nel suo intento. "Mi ha tenuto molto bloccata. Per me erano ancora più spaventose di quelle del suo suicidio. Temevo che mi avrebbe uccisa o rovinata. Ma alla fine sono riuscita a lasciarlo, nonostante la paura", spiega.
"L'ho fatto al momento giusto. Era una cosa troppo grande, avevo paurissima. Ma mi sono trovata davanti una costellazione di situazioni che mi hanno permesso di farlo". Tutto è iniziato con un messaggio ricevuto da parte di un suo amico: "A un certo punto menzionava anche il fatto che ero triste nella relazione. Il mio ex, che era solito controllarmi il cellulare, lo ha letto. Ed è scattato".
I due sarebbero dovuti partire insieme per un viaggio. "Mi dicevo che lo avrei lasciato soltanto una volta rientrati. Ma quel messaggio mi ha fatto scattare qualcosa. E ho capito che era il momento giusto". La reazione del ragazzo, invece, è stata violenta. "Come ogni volta – aggiunge lei – Si è messo a correre in mezzo alla strada, gridava che si sarebbe fatto investire. Ma quella volta sono stata dura. Non mi ero dimenticata di tutte le minacce. Voleva rovinarmi la vita. Poteva farlo, non me ne importava più niente, l'importante per me era allontanarmi da lui e chiudere il rapporto".
Ma lui si è presentato a casa di Momoka. "Alle 5 della mattina è venuto sotto casa mia. Diceva che era cambiato, voleva ricominciare. Ma niente mi faceva pensare che sarebbe cambiato davvero. Continuava ad arrabbiarsi, con violenza. E quando succedeva era inutile farlo ragionare. Soltanto la preoccupazione che potessi farmi male da sola poteva placarlo. Avevo anche iniziato ad autolesionarmi per mostrargli che ero triste. Ma questo non può essere amore", continua.
"Ha fatto lo stesso anche il giorno successivo, dicendomi che dovevo scendere quando si è presentato sotto casa. Non l'ho fatto. Anzi, in quel periodo ho iniziato a fare il tragitto da casa a scuola e viceversa accompagnata dal mio migliore amico. Avevo paura che arrivasse sotto casa o davanti scuola. Non lo ha mai fatto. Ma la paura era tantissima".
Sono passati più di 15 anni da quei giorni, eppure Momoka ricorda ancora tutto come se fosse ieri. "Mi dispiace vedere ancora oggi ragazzine e ragazzini, anche sui social come TikTok, che sono convinti che essere gelosi siano uno dei requisiti fondamentali per dimostrare amore. Non è così, quelle non sono relazioni sane. Per questo sono convinta che dovremmo lavorare tantissimo sull'educazione dell'amore libero, senza compromessi e senza gelosia, che è soltanto espressione di insicurezza e mancanza di fiducia. Ma senza fiducia una relazione non ha senso di esistere. Tutto questo è sempre più radicato nella nostra società a livello sistemico, per questo una formazione di questo genere potrebbe rientrare nell'educazione sessuo-affettiva di cui si parla sempre più spesso – sottolinea – Oggi mi sembra una banalità, prima non lo era. E per molti è ancora così. Invece è importante segnalare comportamenti di questo tipo come red flag. Ogni atteggiamento di controllo può essere un segnale".
E se si ha il sospetto che un'amica o un amico possa trovarsi a vivere una situazione simile come agire? "All'epoca non c'era tutta questa sensibilità al tema. Anche quando ne parlavo con i miei amici avevo paura di essere giudicata, quando magari sarebbe bastato chiedere aiuto – ricorda – Secondo me è necessario ascoltare e far sentire la persona meno sola. Entrano in gioco delle dinamiche psicologiche particolari, penso alla Sindrome di Stoccolma, ad esempio, fra le più gravi. Le persone si fanno aiutare quando sanno di aver bisogno di aiuto, ma in una relazione manipolatoria è difficile riconoscere la realtà", sottolinea.
"Bisogna ricordare che spesso c'è la paura di essere giudicate, la paura di restare sole. Ci sentiamo condannate a vivere per sempre quella vita. A volte basta che ci venga ricordato che non è così, che le cose possono cambiare anche se è difficile, forse ancora di più in età adulta, quando subentrano anche altre dinamiche, penso a quelle economiche o alla presenza di figli. Se non avessi avuto il mio migliore amico ad accompagnarmi a scuola cosa avrei fatto? – si chiede – Ma non è un percorso semplice, purtroppo. Richiede fatica e sforzo, talvolta una lotta anche contro se stesse".
Anche per questo Momoka ha deciso di parlare della sua esperienza. "Mostrare altre storie simili può essere d'aiuto agli altri per aprire gli occhi. Diventa un po' come andare in terapia. Tu vai in terapia e riesci a migliorare se lo vuoi tu, in primis. Ma dietro alla scelta, ad esempio, di lasciare un compagno abuser, c'è un mondo dietro che non tutti vedono. Ci sono persone e sensibilità diverse, oltre alla paura di ritrovarsi sotto casa chi abbiamo appena lasciato. Non sarà facile, ma possiamo farcela". Una relazione sbagliata non preclude l'intera vita di una persona. Tutti abbiamo diritto alla felicità. E Momoka rappresenta la prova che, anche dopo un'esperienza di questo tipo, si può tornare a vivere.