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Scuola, la proposta della Lega per la disabilità: gli insegnanti di sostegno si chiameranno docenti per l’inclusione

Una proposta della Lega punta a sostituire la dicitura “docente di sostegno” con “docente per l’inclusione” nei testi scolastici. Un cambiamento solo linguistico che potrebbe però sollevare numerosi dubbi.
A cura di Francesca Moriero
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Una proposta di legge firmata da sei deputati della Lega, punterebbe a sostituire in tutti i testi normativi la dicitura "docente di sostegno" con "docente per l’inclusione". L’obiettivo dichiarato è quello di valorizzare questa figura educativa, allontanandola dalla percezione, ritenuta riduttiva, di assistente personale dell’alunno con disabilità. Il cambiamento investirebbe in particolare il decreto legislativo 66 del 2017, che disciplina il diritto allo studio degli alunni e delle alunne con disabilità, ma si estenderebbe a tutta la normativa scolastica; nessun costo aggiuntivo previsto, nessun impatto operativo immediato. Solo una modifica di termini. Ma è proprio da qui che potrebbe nascere la questione: è sufficiente cambiare le parole per cambiare la scuola?

Un cambiamento che potrebbe restare sulla carta

A prima vista, l’operazione si presenta come un aggiornamento terminologico, ma il rischio potrebbe essere quello di fermarsi alla superficie. In un sistema scolastico che da anni fa i conti con la carenza di docenti di sostegno specializzati, con la discontinuità didattica e con la cronica scarsità di risorse, il riconoscimento del ruolo del docente di sostegno non sembra infatti passare prioritariamente dal linguaggio. O almeno, non solo. Il pericolo è infatti che questa proposta finisca per evitare il confronto con i problemi reali che ogni anno, a settembre, si ripresentano puntuali: ritardi nelle assegnazioni, supplenze in deroga, percorsi formativi insufficienti o stipendi davvero ancora molto bassi. Cambiare nome potrebbe bastare a ridare dignità a un ruolo tanto delicato quanto sottovalutato? O si rischia di ridurre tutto a una questione di etichette?

Sostegno o inclusione

Un’altra domanda potrebbe riguardare proprio il senso delle parole: "Sostegno" è davvero un termine da superare? O potrebbe essere, al contrario, una parola profondamente inclusiva? Sostenere non significa etichettare ma offrire un appoggio, un aiuto, temporaneo o duraturo, a chi ne ha bisogno. Non dice chi sei, ma cosa ti serve, non divide, accompagna. Il docente di sostegno, per sua definizione, lavora nella relazione, non sulla categoria o sulla condizione sociale. "Inclusione" è certo una parola estremamente positiva e ampiamente condivisa, ma il rischio, usandola in modo così astratto, potrebbe essere quello di rafforzare, forse inconsapevolmente, l'idea che esista un dentro e un fuori? Se qualcuno va incluso, significa che in partenza era escluso. Ma da chi? E perché? Un alunno con disabilità è forse, per natura, fuori dalla comunità scolastica? In una scuola che si definisce pubblica, e quindi aperta e accogliente per definizione, ha ancora senso parlare di inclusione come gesto unilaterale, da compiere verso chi sarebbe altrimenti esterno?

Dalla relazione, non dalla categoria

Cambiare "sostegno" con "inclusione" potrebbe anche spostare il fuoco da ciò che si fa a ciò che si è, cioè dall’azione alla definizione. Il docente che sostiene agisce, accompagna, costruisce una relazione educativa, non include qualcuno che è fuori: aiuta chi è già parte della classe, con i suoi bisogni, le sue fragilità, i suoi diritti. L'azione educativa si fonda sulla relazione, non sulla categoria e ogni tentativo di nominare il ruolo dell'insegnante dovrebbe tenere conto forse proprio di questo, cioè che non è il nome a fare il mestiere, ma le condizioni in cui quel mestiere si svolge. La proposta della Lega potrebbe aprire insomma un dibattito necessario, ma potrebbe generare effetti ambigui se non accompagnata da interventi concreti; il rischio è sostanzialmente che si finisca per credere che una parola diversa, forse ancora non troppo precisa, basti a cambiare tutto il sistema. Quando invece, per restituire centralità al docente che sostiene, come spiegano i più critici, servirebbero risorse, continuità, formazione, riconoscimento. Anche perché in una scuola davvero giusta, nessuno dovrebbe essere incluso, perché nessuno, in partenza, dovrebbe sentirsi escluso.

Il paradosso linguistico e politico

C'è infine un ulteriore interrogativo, che riguarda il contesto politico da cui questa proposta proviene: la stessa forza politica che oggi chiede di modificare la terminologia per renderla più “inclusiva”, negli ultimi anni ha contestato più volte gli strumenti e i linguaggi nati proprio con l'intento di includere: dallo schwa ai segni grafici come l’asterisco, fino all’uso di forme neutre per evitare il maschile sovraesteso. Espedienti linguistici definiti "ideologici", "esagerati", "ridicoli". In quel dibattito, il principio di inclusività era stato bollato come una deriva del politicamente corretto. Oggi, però, la stessa idea di inclusione viene recuperata per giustificare un'operazione terminologica su una delle figure più delicate della scuola. Si potrebbe allora sollevare un altro dubbio ancora: perché proprio qui le parole sembrano farsi carico di tutto? È davvero un atto di riconoscimento, o c'è anche il tentativo, più sottile, di non riconoscere ma solo di normalizzare, ridefinire, ridurre una funzione professionale che, per sua natura, sfugge ai confini ordinari dell'insegnamento?

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