Rete Pace Disarmo: “Militari e politici vogliono farci credere che siamo destinati alla guerra”

Dopo le dichiarazioni dell'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, oggi presidente del Comitato militare della Nato, che ha parlato della possibilità di adottare una postura "più proattiva", arrivando a ipotizzare perfino "attacchi preventivi" nei confronti della Russia nel dominio della guerra ibrida, il dibattito politico e mediatico si è acceso immediatamente. Da un lato chi vede in queste parole un allarme per la sicurezza europea, dall'altro chi teme un ulteriore scivolamento verso una logica di confronto permanente.
Secondo Francesco Vignarca, coordinatore nazionale delle campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo non è tanto l'idea che i militari elaborino scenari bellici a rappresentare il vero problema, quanto il fatto che questi scenari vengano esposti pubblicamente, in un modo che finisce per minare lo spazio della diplomazia e indebolire qualunque alternativa alla guerra.
Lo abbiamo intervistato per capire come legge le parole di Cavo Dragone e quale rischio vede dietro il crescente discorso sulla "guerra ibrida", sulla deterrenza e sull'assenza di alternative.
Parto dalle parole dell'ammiraglio Cavo Dragone: ipotizzare strategie militari, anche preventive, è il ruolo dei vertici della difesa. Ma è normale che vengano dichiarate così apertamente?
Penso sia necessario scindere due piani. Da un lato, sì: è "normale", lo dico tra virgolette. I militari di tutto il mondo elaborano strategie di difesa o di attacco, è il loro mestiere, è quello per cui vengono pagati. Non è il modo in cui io penso si debbano affrontare i conflitti, ma rientra nella loro funzione. Il problema vero nasce quando questi piani vengono messi sul tavolo del dibattito pubblico. Ciò che trovo strutturalmente grave, nella Nato ma anche nell'Unione Europea, è che ormai tutti parlano di tutto: ruoli, linguaggi e responsabilità si mescolano. Se sei presidente del Comitato militare Nato puoi valutare strategie interne, ma non è necessario esternarle. Così facendo si finisce per interferire con percorsi diversi, soprattutto quelli diplomatici.
È un rischio che vale anche sul fronte politico? Penso, per esempio, alle dichiarazioni molto dure arrivate da alcuni vertici europei sulla Russia.
Esatto. Vale anche in Europa. Quando un leader come la Kallas dice "la Russia fa schifo" o "va solo contrastata", è libero di pensarlo. Ma così non puoi poi pretendere che l'Europa giochi un ruolo diplomatico. Se vuoi negoziare, certe cose te le devi tenere per te. Quello che vedo oggi è una tendenza esplicita – o forse solo inconsapevole – a minare tutto ciò che non è confronto militare: ogni dichiarazione di quel tipo indebolisce le alternative. Non rende migliori i piani di difesa, ma distrugge la possibilità di percorsi diversi.
Lei dice che questo linguaggio rischia di chiudere gli spazi di mediazione. In che senso?
È semplice: più si ripetono pubblicamente tesi belliciste, più si restringono gli spazi diplomatici. Non si indebolisce solo la trattativa sull'Ucraina: si indebolisce l'idea stessa che la pace sia un percorso possibile. Oggi, quando si parla di Russia o di qualsiasi altro avversario, sembra che la sola alternativa sia lo scontro. E questo è funzionale solo a chi vuole riarmare, perché se riesci a far passare l'idea che "non ci sono alternative", allora la strada dell'armamento diventa inevitabile.
C'è anche un continuo riferimento alla "guerra ibrida". Quanto pesa questo preciso linguaggio sulla percezione pubblica?
Pesa tantissimo. Parlare di "guerra ibrida" in modo generico è molto grave. Una guerra è un'altra cosa: è devastazione, è violenza, è morti, attacchi diretti. Le operazioni cyber o gli atti ostili non sono già guerra. Ma oggi c'è un tentativo evidente di chiamare "guerra" tutto ciò che è appunto ostile. Come fu con la "guerra al terrorismo": un concetto sbagliato che ha permesso di fare qualsiasi cosa. È una semplificazione: se tutto è guerra, tutto vale. E si crea quel meccanismo manicheo per cui "io sono il buono, tu il cattivo". Le mie armi difendono la pace, le tue no. Funziona perché è semplice, ma la pace è complessa: richiede analisi, complessità, interrelazione, capacità di uscire dagli schemi binari.
Sul tema degli "attacchi preventivi": esistono davvero basi giuridiche per considerare "difensiva" un'azione offensiva?
Per me no. E ci sono almeno tre motivi. Primo: non puoi richiamarti alla legalità internazionale quando l'Occidente stesso l'ha indebolita per anni. Parlo degli attacchi extragiudiziari, dei droni, delle operazioni fuori dai mandati Onu. Se il sistema giuridico lo hai eroso tu, poi non puoi appellarti a esso. Secondo: se accettiamo l'idea di un attacco preventivo "giusto", allora dobbiamo giustificare pure Pearl Harbor. Basta dire: "era deterrenza". Ma nessuno l'ha mai accettato. Le regole esistono per impedire questo tipo di manipolazioni. Terzo: la deterrenza, semplicemente, non funziona. Non funziona a livello nucleare – e gli esempi dell'Ucraina e di Israele lo dimostrano – figuriamoci a livello convenzionale o cyber. È un mito evocato per giustificare il ricorso alla forza, non una reale garanzia di sicurezza.
E poi c'è un'ipocrisia di fondo: se critichiamo Putin quando giustifica interventi "preventivi", non possiamo poi accettare che la Nato faccia lo stesso. Altrimenti siamo sullo stesso piano.
Può spiegare meglio cosa intende quando parla di un cambiamento culturale che ci fa ragionare sempre più in termini di guerra?
Intendo che ogni giorno si lavora, culturalmente e politicamente, per far percepire la guerra come un destino, non una scelta. Pensi a quando si parla di "leva volontaria": non esiste. O è leva, e quindi obbligatoria, o è arruolamento volontario. Ma la si usa per far entrare nella testa delle persone l'idea che il riarmo sia naturale, fisiologico.
Penso anche alle scuole, appena poche settimane fa il ministro dell'istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha bloccato corsi contro la militarizzazione, giudicandoli "di parte".
Si, la par condicio. Come se per parlare anche per dire di mafia servisse invitare un mafioso "per par condicio". Il punto è che il mondo parla sempre più di armi e spende sempre di più in armi, le spese militari globali sono più che raddoppiate in 25 anni, ma il mondo non è più sicuro. Anzi, è più instabile. Se non hai fatti o numeri che giustifichino il riarmo, l'unica strategia che ti resta è dire: "non c'è alternativa".
C'è l'alternativa?
Si, l'alternativa c'è. Non è semplice, non è immediata, non è una bacchetta magica. Ma esiste, e la storia ci dice che quando si sceglie la strada nonviolenta l'umanità fa un passo avanti, non indietro. Il lavoro dei movimenti pacifisti oggi è proprio questo: difendere l'idea che un'altra strada è possibile. Perché è questa l'idea che fa davvero paura a chi considera la guerra un destino inevitabile.