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Quanti sono i giovani in fuga all’estero dall’Italia e perché un terzo dei naturalizzati lasciano il Paese

Tra i 270mila italiani emigrati tra 2023 e 2024, circa un terzo sono cittadini naturalizzati, spesso giovani cresciuti in Italia da famiglie immigrate. La loro scelta di partire non è solo economica: pesa il senso di esclusione sociale e anche quello istituzionale. Cosa dicono le stime del Centro studi e ricerche IDOS, basate sui dati Istat.
A cura di Francesca Moriero
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Cresciuti nelle scuole italiane, fluenti nella lingua e spesso anche nei dialetti locali, con titoli di studio elevati e competenze riconosciute: sono i giovani cittadini naturalizzati, figli di famiglie immigrate, che sempre più spesso scelgono di lasciare l'Italia. Lo fanno dopo aver completato un lungo percorso di integrazione formale, ma con alle spalle una quotidianità segnata da ostacoli, esclusioni sottili, riconoscimenti solo parziali. Secondo le stime del Centro Studi e Ricerche IDOS, basate su dati Istat, anticipati da La Stampa, tra i circa 270mila espatri registrati tra il 2023 e il 2024, ben 87mila riguardano cittadini italiani nati all'estero. Un dato che, pur essendo parziale, segnala una tendenza in crescita.

Non si tratterebbe soltanto di una ricerca di opportunità economiche o professionali migliori; per molti di loro, partire significa anche cercare un contesto dove sentirsi pienamente accolti, liberi da etichette, parte di una società che riconosca la loro identità senza riserve. Un'esigenza che mette in luce, più che una certezza, un rischio: quello che l'Italia, pur nella sua trasformazione culturale, non riesca ancora a offrire uno spazio pienamente inclusivo a chi ne ha ormai condiviso la storia.

È insomma un fenomeno che solleva domande profonde, ancora una volta, sulla tenuta del nostro modello di cittadinanza, e sul ruolo delle istituzioni nel costruire un senso di appartenenza che non si limiti al possesso di un documento.

Quanti sono gli italiani naturalizzati espatriati: "dato sottostimato"

Secondo IDOS, il dato degli espatri tra i cittadini naturalizzati è probabilmente sottostimato: le statistiche si basano sulle nuove iscrizioni all'AIRE (l'anagrafe degli italiani residenti all'estero) e non tengono conto, ad esempio, di chi è nato in Italia da genitori stranieri e ha acquisito la cittadinanza solo a 18 anni. Eppure, anche con questi limiti, si registra un aumento del 53,8% rispetto al 2022. Un trend insomma in crescita costante, che racconta la frustrazione di chi, pur avendo un passaporto italiano, non si sente considerato pienamente parte della comunità: "Questi ragazzi vengono spesso trattati come stranieri anche se sono nati o cresciuti qui", spiega Antonio Ricci, vicepresidente di IDOS. Una percezione che incide fortemente sulle loro scelte di vita: "Si sentono cittadini di serie B, privi di un riconoscimento pieno, simbolico e politico".

Le destinazioni dipendono dalla lingua, dalle origini e dai legami

Le mete scelte da chi lascia l'Italia non sono casuali: i giovani naturalizzati tendono a emigrare in Paesi dove possano contare su reti sociali e linguistiche, ma anche su sistemi più inclusivi. Il 45,7% degli africani naturalizzati italiani sceglie la Francia, dove l’esperienza postcoloniale ha creato una società più abituata alla diversità. Il 72,9% degli asiatici, in particolare da India, Pakistan, Bangladesh, si dirige nel Regno Unito, attratti da una consolidata presenza diasporica. I cittadini comunitari optano per la Germania, mentre i sudamericani si dividono tra il ritorno nei Paesi d’origine (54%) e la Spagna (16%). La scelta della meta, quindi, sembra riflettere anche una domanda implicita: dove posso sentirmi accolto e riconosciuto? E la risposta, sempre più spesso, non è l'Italia.

Il costo sociale di una fuga silenziosa

In molti casi si tratta di giovani con un alto livello di istruzione, padronanza di più lingue, esperienze internazionali già alle spalle. Si inseriscono con successo in settori ad alta qualificazione come l'accademia, il digitale, la creatività; per questo la loro partenza è anche una perdita per il Paese: energie fresche, competenze preziose, esperienze maturate in contesti multiculturali. Ma ciò che rende questa "fuga" particolarmente amara è che non si tratta solo di un fallimento economico. È il segno di una mancata inclusione sociale e culturale: "Senza un riconoscimento affettivo e politico, anche i percorsi di successo si infrangono contro un senso profondo di esclusione", dice Ricci. E quando il legame simbolico con il Paese si rompe, anche la cittadinanza formale diventa fragile.

Un’occasione mancata, ma non irreversibile

L'Italia rischia così di trasformare una generazione di risorse in un esercito di delusi: persone che, invece di essere protagoniste di una società pluralista e rinnovata, scelgono di costruire altrove il loro futuro. Eppure, questo flusso potrebbe essere invertito, o almeno rallentato, se si agisse con decisione su alcune priorità: semplificare l'accesso alla cittadinanza, riconoscere nei fatti la pluralità culturale del Paese, investire su un’inclusione che non sia solo burocratica, ma anche simbolica.

Forse, allora, non si tratta solo di evitare la fuga dei "cervelli", ma di costruire una società in cui nessuno si senta costretto a partire per sentirsi finalmente cittadino.

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