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Referendum 2025

Perché rendere più veloce la cittadinanza e abbattere il precariato con i referendum farà bene all’economia

Dario Guarascio, professore al dipartimento di Economia e Diritto alla Sapienza, analizza le conseguenze economiche che potrebbero avere i referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno.
Intervista a Dario Guarascio
Economista, professore al dipartimento di Economia e Diritto alla Sapienza
A cura di Annalisa Cangemi
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Cosa cambia se passa il Sì ai referendum abrogativi sul lavoro promossi dalla Cgil e a quello sulla cittadinanza? Delle ripercussioni economiche e delle eventuali ricadute in termini occupazionali abbiamo parlato con Dario Guarascio, professore al dipartimento di Economia e Diritto alla Sapienza, ricercatore e responsabile della struttura "Metodologie e strumenti per le competenze e le transizioni" dell'INAPP (Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche).

La Svimez stima che il numero di stranieri extracomunitari che, con l'approvazione della riforma referendaria, acquisirebbero immediatamente il diritto alla cittadinanza italiana, sarebbe in totale 1.417.374, di cui 1.231.317 al Centro-Nord e 204.003 al Mezzogiorno. Di questi, i minorenni sarebbero 291.204, di cui 252.419 al Centro-Nord e 38.676 al Mezzogiorno. Ricordiamo che il quesito sulla cittadinanza comporta il "dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana".

Come gli italiani senza cittadinanza impattano negativamente sul mercato del lavoro

Per quanto riguarda il quinto quesito del referendum, quello sulla cittadinanza, "penso sia indispensabile fare una premessa che riguarda l'elemento di civiltà e lo stato di salute del sistema democratico e della società. Perché è un segnale di arretratezza e di patologia democratica costringere milioni di persone a periodi ingiustificatamente lunghi di attesa per ottenere un diritto, favorendo così la segregazione e trattando in modo diseguale persone che contribuiscono alla società nello stesso modo di chi lavora con loro, di chi vive con loro, di chi va a scuola con loro. E questo vulnus va preliminarmente sanato a prescindere da considerazioni di carattere economico", ha spiegato il professor Guarascio a Fanpage.it.

Fatte queste considerazioni preliminari, le analisi di carattere economico si intrecciano con gli elementi di declino e patologia che caratterizzano l'economia italiana, e in particolare il suo mercato del lavoro. "Perché avere milioni di persone che vivono in condizioni di incertezza, per quanto riguarda i diritti di cui possono godere e il ruolo che le istituzioni gli riconoscono, significa condannare queste persone a una condizione di diseguaglianza rispetto agli altri. La maggiore incertezza si traduce in una minore propensione a consumare, in una minore capacità di investire sulla propria vita, influisce sull'acquisto di una casa o su qualunque altro tipo di decisione che consolida anche da un punto di vista economico la vita delle delle persone", ha detto Dario Guarascio a Fanpage.it

Sul piano macroeconomico significa che "c'è una sacca relativamente ampia che essendo esposta a forte incertezza contribuirà meno di quanto può alla dinamica economica, ai consumi, agli investimenti, al dinamismo economico più in generale. L'incertezza inoltre incide negativamente anche quando queste persone operano all'interno di un'impresa, perché eh si sentono discriminate, e quindi potrebbero avere una minore propensione a contribuire all'accumulazione di competenze, a mettere in campo strategie competitive e di cooperazione virtuosa sul piano economico, che sono proprio quelle che si associano a maggiore innovazione, maggiore dinamismo, maggiore compatibilità tra crescita economica e sostenibilità sociale".

"Dall'altra parte, il persistere di situazioni di discriminazione, come quelle che il quesito tenta, almeno in parte, di affrontare, permette alle imprese, soprattutto a quelle che scelgono la via bassa per la competizione, cioè il contenimento dei costi e l'intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori, di avere una porzione importante di lavoratori che proprio perché vive le condizioni di incertezza che dicevamo prima, sarà più ricattabile, avrà meno potere contrattuale, sarà più facilmente licenziabile o assegnabile a mansioni inferiori rispetto a quelle che potrebbe svolgere. Quindi, la situazione attuale favorisce un'involuzione, un processo di declino strutturale che passa anche attraverso strategie competitive di tipo basso, che sono all'origine della bassa produttività generale che riscontriamo oramai da più di 20 anni nel nostro Paese, e che si è andata esacerbando negli ultimi anni".

Perché i referendum dell'8 e 9 giugno possono aiutare la ripresa economica

"C'è dunque un legame molto più chiaro di quello che normalmente viene raccontato, tra quello che il quesito sulla cittadinanza vuole affrontare e le patologie macroeconomiche e strutturali che caratterizzano la nostra economia e il nostro mercato del lavoro, come la crescita dei segmenti altamente precari, l'aumento delle sacche di lavoro povero, cioè lavoro con retribuzioni basse per singola ora lavorata, le occupazioni a bassa intensità oraria, per esempio i part-time involontari e con carriere discontinue, i contratti non standard e precari. Queste condizioni generano un circolo vizioso che incide negativamente sulla produttività, sulla dinamica macroeconomica e sulla crescita, inquinando in termini negativi anche il resto del sistema economico", ha detto l'esperto a Fanpage.it

Secondo il professor Guarascio, "I quesiti sul lavoro, parallelamente al quesito sulla cittadinanza, tentano di intervenire sulle riforme e sulle norme sbagliate che si sono succedute negli ultimi 20 anni, che non hanno fatto altro che accrescere la precarietà del mercato del lavoro. Certo, per risolvere del tutto questi problemi servirebbe un intervento molto più ampio e accompagnato anche da altri interventi di politica economica che vadano oltre le politiche del lavoro, e che dovrebbero riguardare, per esempio, anche le politiche industriali".

"Tuttavia già i primi quattro quesiti, soprattutto quello che riguarda la riduzione del lavoro precario, sono tentativi che vanno nella direzione di rispostare un po' la bilancia verso il lavoro. Non solo per una questione di giustizia sociale, di equità, ma anche perché un'economia sana, innovativa, in grado di crescere molto, di generare benefici ampiamente diffusi, non può essere un'economia dove il lavoro è sistematicamente condizionato dalla precarietà, da basse retribuzioni, da retribuzioni che non sono neanche in grado di soddisfare i bisogni primari".

Per aiutare l'economia italiana a riprendersi da questo declino ventennale bisogna insomma interrompere questo circolo vizioso che con il lavoro povero ci ha portato ad avere sistematicamente bassa produttività, scarsi investimenti in innovazione, arretramento tecnologico.

La buona riuscita del referendum quindi non è importante solo per arrivare a una maggiore giustizia sociale, ma sarebbe anche un modo "per iniziare a spingere l'economia verso un circolo virtuoso, cioè un sistema in cui le imprese pagano bene il lavoro, i rapporti di lavoro sono stabili e quindi consentono di accumulare competenze e conoscenze specifiche, che portano a maggiore produttività, al posto di vie facili o basse alla competizione, che sono appunto il contenimento del costo del lavoro o lo sfruttamento dei segmenti più fragili del lavoro".

"Questo meccanismo indurrà sempre più le imprese a investire per rafforzare la loro capacità organizzativa, tecnologica, competitiva con conseguenti benefici generalizzati che si riscontrerebbero non solo in termini di equità, ma anche di competitività e crescita. Questi problemi, sebbene con sfaccettature diverse, riguardano esattamente nello stesso modo l'Europa – e in parte il processo di integrazione europea ci ha spinto lungo questa direzione economicamente negativa – ma l'esito positivo del referendum potrebbe essere un segnale molto rilevante e l'avvio di una inversione di tendenza che è non è più rinviabile", ha spiegato l'economista.

Ma è vero che se passasse il Sì le aziende frenerebbero le assunzioni?

Il fronte del No al referendum sostiene che se passassero i quesiti sul lavoro non migliorerebbe la qualità del lavoro, ma anzi le aziende sarebbero disincentivate ad assumere, soprattutto le piccole imprese, per evitare il rischio di contenziosi. È così?

Secondo il professore Guarascio, questa è la classica argomentazione portata avanti negli ultimi 25 anni per giustificare gli interventi non hanno fatto altro che aumentare le forme di lavoro precario a disposizione delle imprese, rendendo più facili i licenziamenti, indebolendo sistematicamente il potere contrattuale dei lavoratori. Con la promessa che una maggiore flessibilità delle imprese le avrebbe portate ad assumere di più.

"Abbiamo visto che è successo esattamente il contrario: le imprese assumono se c'è domanda sul mercato, se ci sono persone disponibili ad acquistare i loro beni. Noi abbiamo fatto le due cose peggiori possibili negli ultimi 25 anni: da una parte abbiamo indebolito il lavoro, creando sacche di fragilità e di incertezza che hanno anche depresso l'economia e inciso negativamente sulla produttività, come dicevo, e dall'altra abbiamo tagliato la spesa pubblica e fatto sistematicamente austerità, quindi abbiamo depresso anche la domanda".

"Non solo non si sono verificate le cose che erano state promesse e che comunque non sono supportate da nessun tipo di evidenza empirica. Ma abbiamo evidenza esattamente del contrario, cioè dove c'è il salario minimo, come per esempio in Germania, dove è stato introdotto nel 2015, abbiamo avuto una dinamica di crescita anche occupazionale tra le più intense, rispetto agli altri paesi europei. C'è proprio una misinterpretazione del funzionamento di meccanismi fondamentali dell'economia e dei mercati. Se io so che posso ricorrere al lavoro a basso o a bassissimo costo, ovviamente l'incentivo ad aggiornare il mio assetto organizzativo, a comprare macchinari, nuovi software, viene meno. D'altra parte le imprese innovative sono quelle che accumulano competenze specifiche che sviluppano conoscenza, che poi incentiva la capacità di sviluppare e introdurre innovazioni. Ma questo avviene se l'organizzazione ha una sua stabilità e ha un importante grado di cooperazione all'interno".

"Rapporti di lavoro di tipo precario, bassi salari e quindi insoddisfazione dei lavoratori, vanno in una direzione assolutamente contraria, che ha implicazioni negative anche sul piano macroeconomico. E quindi casomai genererà, come è successo in Italia, più disoccupazione, non meno disoccupazione".

L'economista ha ricordato poi l'unica fase in cui il Job Act è riuscito a creare occupazione a tempo indeterminato con i nuovi contratti a tutele crescenti, è quella in cui furono regalati alle imprese enormi quantità di risorse pubbliche sotto forma di sussidi: "Fino a che le assunzioni sono state drogate, dopo il Jobs Act, c'è stato un minimo di rimbalzo occupazionale. Questo però è scomparso immediatamente non appena lo Stato ha smesso di erogare sussidi".

Perché si vuole intervenire sul lavoro con un referendum e non con una riforma?

Un'altra argomentazione spinta del fronte del No è quella dell'eccessiva difficoltà della materia: il rischio, secondo i più critici, è che intervenire su una materia così complessa con un referendum, e non una riforma in Parlamento, potrebbe portare a una frammentazione delle normative.

Secondo l'analisi di Dario Guarascio "Il referendum è uno strumento molto preciso che il legislatore fornisce, ha un senso dal punto di vista della dialettica democratica. Questo referendum in particolare può essere un punto di partenza fondamentale che non introduce complessità, ma invece introduce un elemento di chiarezza: è stato estremamente dannoso per il lavoro, per l'economia, per la produttività, indebolire il lavoro, flessibilizzare indiscriminatamente il mercato del lavoro. Questo è il messaggio. Certo, questo referendum non è sufficiente, servirebbe un intervento più sistematico, e come dicevo non bastano le politiche del lavoro, ma bisogna combinare politiche del lavoro, politiche industriali che rafforzino davvero la struttura produttiva e riducano la dipendenza dalle importazioni, e politiche fiscali espansive. Da questo punto di vista l'assetto economico e di regole dell'Unione Europea continua a non andare bene e continua a essere prodromo di crisi e divari interni all'Unione".

"Ma se quello a cui aneliamo è un intervento di tipo sistematico in grado di dare una risposta vera e di dare una prospettiva diversa sul piano economico e del lavoro, dobbiamo solo sperare che i referendum raggiunga il quorum e che vinca al Sì. Questo sarebbe un primo passo nella giusta direzione, verso un intervento sistemico e più generalizzato", ha concluso il professore.

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