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Perché lo Stato continua a proteggere i poliziotti della “macelleria messicana” al G8 di Genova

Ventiquattro anni dopo, molti dei poliziotti condannati con sentenza definitiva per i fatti della Diaz sono stati promossi: Filippo  Ferri è stato nominato questore di Monza nel giugno 2025, mentre Fabrizio Ledoti è diventato ispettore dopo una sentenza del TAR Lazio; entrambi furono riconosciuti responsabili per reati gravi legati all’irruzione.
A cura di Francesca Moriero
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Quando si parla del G8 di Genova e dei fatti della Diaz, c'è ancora chi liquida la storia con una scrollata di spalle e uno slogan sulla violenza dei manifestanti: "quei ragazzi se la sono cercata". Come se non ci fossero sentenze, atti, ricostruzioni giudiziarie; come se il G8 di Genova fosse solo un grande caos dove ognuno ha fatto la sua parte, e quindi nessuno ha davvero colpa.

Sono nata e cresciuta a Genova, avevo sette anni nell’estate del 2001: troppo piccola per esserci, ma abbastanza grande per ricordare i racconti degli adulti. Oggi non posso fare a meno di guardare indietro e chiedermi perché lo Stato abbia protetto, addirittura promosso, i responsabili di quella che Amnesty International ha definito "la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale".

Perché non si tratta solo di quello che è accaduto allora, ma di quello che è successo dopo: ventiquattro anni dopo, chi è stato condannato in via definitiva per i falsi alla scuola Diaz, come Filippo Ferri, è stato nominato questore, a Monza, a giugno 2025. Tre anni e otto mesi di condanna, interdizione dai pubblici uffici, per aver costruito prove false a copertura della “macelleria messicana”, così la definì Michelangelo Fournier, allora vicequestore. Eppure Ferri è di nuovo in carica, con piene funzioni. Penso a Spartaco Mortola, capo della Digos nel luglio del 2001, che appena pochi anni dopo i fatti della Diaz è stato promosso, ottenendo il grado di questore. Mi viene in mente poi il caso di Fabrizio Ledoti, uno dei capisquadra del Settimo nucleo del reparto mobile di Roma, condannato a quattro anni per lesioni aggravate ai danni di manifestanti inermi alla Diaz: la pena è stata dichiarata prescritta, ma non per questo i fatti sono meno accertati. E oggi Ledoti non solo ha ottenuto la promozione a ispettore, ma anche il risarcimento per gli arretrati stipendiali che gli erano stati negati. Lo ha stabilito il Tar del Lazio, annullando alcuni atti amministrativi legati alla decorrenza della sanzione. E così, proprio nel giorno dell’anniversario di quei pestaggi, leggiamo che uno dei condannati è stato premiato.

C’è qualcosa di profondamente stonato in tutto questo, perché non si trattò, come pure ancora si prova a dire, di "qualche mela marcia". Non si trattò di eccezioni, ma di un meccanismo sistemico. La polizia allora costruì false prove, redasse verbali mai accaduti, simulò ritrovamenti di armi. Violò, scientificamente, la legge che era chiamata a far rispettare. E lo fece non per un improvviso scarto individuale, ma perché qualcuno, nei comandi, nei ministeri, forse anche nella politica, pensò che fosse lecito, necessario, inevitabile. E forse, di quegli anni, è questo il punto più inquietante.

Il magistrato Enrico Zucca, che fu pubblico ministero nel processo Diaz, lo ha detto chiaramente: siamo davanti a una forma di "corruzione da nobile causa". Un’espressione mutuata dalla cultura giuridica britannica, che indica il momento in cui un’istituzione, o chi la rappresenta, smette di distinguere tra legalità e giustizia, e si convince che tutto sia lecito se serve a uno scopo più alto. È esattamente ciò che accadde a Genova nel 2001: la sospensione dello Stato di diritto in nome dell’ordine pubblico. E quando accade questo, quando le istituzioni democratiche deviano dalla legge e non sono più capaci di correggersi da sole, allora la devianza non è più un incidente, ma una frattura strutturale. È questo l’interrogativo che resta ancora oggi sul tavolo. Non siamo di fronte solo a una serie di eccessi o errori: non sarebbe allora il caso di indagare se all’epoca esistesse un difetto strutturale nelle regole d’ingaggio, nell’addestramento, nella cultura stessa dell’uso della forza da parte delle forze dell’ordine? Perché il tema, non riguarda solo il passato; quello che accadde in quei giorni è stato già giudicato, nelle aule italiane e internazionali: la Corte di Cassazione, nel 2012, e la Corte europea dei diritti umani nel 2015, hanno parlato di tortura e di "fallimento dello Stato italiano", non solo nell’evitare gli abusi, ma nel punirli. Due terzi degli arresti furono dichiarati illegittimi. Nessuno ha pagato per le torture alla Diaz, nessuno ha pagato per le ulteriori violenze nella caserma di Bolzaneto. Le accuse di lesioni caddero in prescrizione. E oggi chi fu condannato per falso torna ai vertici.

È giusto, allora, mettere sullo stesso piano la violenza dello Stato con quella dei manifestanti? Anche quando il dissenso diventa violento? No, non è giusto. Perché la responsabilità istituzionale è diversa, per definizione: i cittadini possono sbagliare, ma le istituzioni non possono farlo allo stesso modo. La polizia ha, e deve avere, il monopolio legale della forza, ma proprio per questo ha il dovere assoluto di non usare violenza; se cede a quella tentazione, e se lo fa con il sostegno tacito o esplicito dello Stato, allora la frattura non si rimargina. Diventa normalità. Chi equipara la violenza di alcuni manifestanti alla violenza dello Stato compie un’operazione falsa, e profondamente pericolosa.

Le responsabilità, insomma, non stanno sullo stesso piano, né possono essere confuse; una democrazia ha il dovere di perseguire chi sbaglia, certo. Ma ha anche, e soprattutto, il dovere di garantire che le proprie istituzioni non diventino esse stesse la fonte dell’illegalità.

Ecco perché la retorica delle "mele marce" non basta e Zucca l’ha detto chiaramente: se davvero si trattasse di eccezioni, i primi a chiedere trasparenza dovrebbero essere proprio gli agenti "onesti". Dovrebbero pretendere bodycam, codici identificativi visibili, strumenti per isolare i violenti. Ma finché queste richieste vengono viste come un attacco alla categoria, e non come una garanzia per tutti, quella retorica resta fuffa.

Ai tempi dei fatti della Diaz ero troppo piccola per esserci, ma abbastanza grande per ricordare la televisione accesa, l'angoscia e l'incredulità degli adulti, la paura. Sono cresciuta dentro quella memoria, ereditando quella ferita, e per questo ho voluto ascoltarla, comprenderla, studiarla, perché quella crepa ci dice qualcosa sul rapporto tra potere e democrazia, tra Stato e cittadini. Ci dice che nulla è garantito per sempre e che il dovere della memoria non è solo ricordare: è nominare con esattezza ciò che è stato, per evitare che accada di nuovo. Ventiquattro anni dopo, lo schema non sembra essere cambiato. Genova è ancora qui. Non come un capitolo buio del passato, ma come lo specchio di ciò che uno Stato può fare quando decide che la democrazia può essere sospesa per qualche giorno. E che nessuno, alla fine, dovrà renderne conto.

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Genovese trapiantata a Roma. Ho lavorato per Class Editori e Radio3 e ho frequentato la scuola di giornalismo Lelio Basso. Per molti anni, come freelance, mi sono occupata di politica nazionale e internazionale, realizzando reportage sul campo in Paesi come Turchia, Siria, Albania, Bosnia. Ho collaborato con Domani, Internazionale, il manifesto, Lifegate e Tpi. Oggi a Fanpage scrivo di politica e tematiche sociali. 
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