
Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome. E dobbiamo dire che quello che sta accadendo in Palestina – o meglio, quello che Israele sta commettendo in Palestina – è un genocidio.
Questa parola, proprio genocidio come termine, nasce alla fine della Seconda guerra mondiale, dopo l’Olocausto. È stato un avvocato polacco ad averla coniata. Lui si chiamava Raphael Lemkin e in realtà già prima della guerra aveva iniziato a interessarsi al concetto di sterminio di massa di un popolo. Lo aveva fatto rispetto a quello che oggi noi definiamo come il genocidio degli armeni. In quel caso lui lo chiamava barbarie o vandalismo, però ciò che intendeva è pressapoco quello che oggi si intende per genocidio: lo sterminio di un’etnia sul piano fisico e culturale.
Fu prorio lui nel 1944 a usare per primo la parola genocidio. È una parola composta: genos dal greco, che significa famiglia/tribù, e il suffisso -cidio, dal latino, che sta per uccisione. Per la prima volta questa parola appare nel suo libro “Axis Rule in The Occupied Europe”, cioè “Il dominio dell’Asse nell’Europa occupata”.
Quando si è iniziata a usare la parola "genocidio"
In questo libro, Lemkin usa la parola genocidio per descrivere le uccisioni sistematiche degli ebrei compiute dai nazisti. La sua definizione, precisamente è: “Un piano coordinato di azioni diverse che mirano alla distruzione delle basi essenziali della vita di specifici gruppi di popolazione, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi”.
A quel punto si inizia a diffondere l’uso della parola a cui ad esempio si fa riferimento anche nel processo di Norimberga, quando viene istituito uno dei primi tribunali internazionali della storia per giudicare i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità perpetrati dai gerarchi nazisti. Ma in quel momento non è ancora un concetto giuridico: viene usata la parola per descrivere ciò che hanno fatto i nazisti, ma non è un crimine che viene loro imputato.
Le cose cambiano nel 1948, quando l’Assemblea delle Nazioni Unite approvano un trattato internazionale che si chiama “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” e che è entrato a tutti gli effetti in vigore nel 1951. Ad oggi 153 Stati hanno firmato questa Convenzione. È, di fatto, il primo strumento giuridico che identifica il genocidio come un crimine ai sensi del diritto internazionale.
Cosa dice il diritto internazionale
E infatti al primo articolo si stabilisce che le parti contraenti confermano che “il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire”
Al secondo articolo invece si specifica cosa si intende per genocidio. Cioè, “ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
Anche il terzo articolo della Convenzione è molto interessante, perché dice invece che non solo sarà punito il genocidio, ma anche l’intesa che mira a commettere un genocidio, il tentativo di genocidio, la complicità nel genocidio e l’incitamento diretto e pubblico a commettere il genocidio.
Sulla definizione di genocidio c’è sempre stato un po’ di dibattito. Alcuni studiosi ad esempio dicono che nella Convenzione si escludono le persecuzioni che vengono compiute per fini politici, o contro specifici gruppi sociali. Oppure un altro problema sarebbe che vengono solo riconosciuti gli atti diretti contro le persone, non contro gli ambienti in cui queste vivono e da cui deriva la loro sussistenza. E ancora, quando si parla di distruzione “in tutto o in parte” di un gruppo, non è chiaro che cosa significhi: per dirla in modo semplicistico, quante persone di quel gruppo devono essere uccise perché si qualifichi il genocidio?
La Corte internazionale di giustizia
Al di là di tutti questi aspetti, esiste una cornice molto chiara, a livello giuridico, per riconoscere e identificare un genocidio. E quindi perseguirlo. Una domanda importante infatti è: da chi viene giudicato un genocidio? Ci sono due risposte possibili. La Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia.
Facciamo un po’ di chiarezza, anche rispetto al caso specifico di Israele e Palestina. La Corte internazionale di giustizia, che magari avete sentito nominare anche come Tribunale dell’Aia, è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, che si occupa quindi delle questioni che riguardano gli Stati. Questa Corte ha ricevuto un’istanza dal Sudafrica che accusa Israele di aver violato gli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla prevenzione e repressione del delitto di genocidio. Tra le prove portate dal governo sudafricano ci sono i bombardamenti sulla popolazione e altri obiettivi civili, come gli ospedali, i trasferimenti forzati dei palestinesi, e punizioni collettive contro la popolazione, come ad esempio il blocco degli aiuti umanitari.
In relazione a queste accuse la Corte di giustizia ha stabilito sei misure cautelari per Israele, come l’obbligo di prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio, oppure di mettere in atto delle azioni per garantire immediatamente l’assistenza umanitaria ai civili nella Striscia di Gaza, e di conservare tutte le prove che potrebbero essere utilizzate in questo caso, per stabilire se quanto accaduto sia effettivamente un genocidio o meno.
La giustizia non va veloce. I tempi delle indagini e dei processi, soprattutto per un tribunale internazionale che deve giudicare accuse complesse come quelle di genocidio, sono fisiologicamente molto lunghi. Però è molto significativo il fatto che i giudici dell’Aia non abbiano dismesso le istanze del Sudafrica, ma le abbiano invece accolte emettendo delle misure cautelari.
La Corte penale internazionale
Poi, come dicevamo, c’è un altro organo chiamato a esprimersi: la Corte penale internazionale. Questa è nata a Roma nel 1998 ed è un tribunale che si occupa di giudicare i crimini internazionali più gravi, che sono i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e, appunto, il genocidio. Più recentemente poi è stato aggiunto a questi anche il crimine di aggressione.
Nel caso della Corte penale internazionale, a differenza della Corte di giustizia, a essere giudicati non sono gli Stati, ma le singole persone. In questo specifico caso, nel mirino della Corte sono finiti Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, l’ex ministro della Difesa: nei loro confronti sono stati emessi mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Va precisato che in quel contesto la Corte aveva emesso un mandato anche per Mohamemd Deif, il capo del braccio armato di Hamas, sempre con le stesse accuse. Lui però è stato ucciso dalle IDF, le Forze di Difesa Israeliane, durante un attacco a Khan Yunis.
Ad ogni modo, le accuse non sono per genocidio. Nei mandati di arresto, che sono stati emessi a novembre del 2024, la Corte ha spiegato di aver riscontrato fondati motivi per ritenere che Netanyahu e Gallant siano responsabili di crimini di guerra per aver usato la fame come metodo di guerra, e anche che la mancanza di cibo, acqua, elettricità e medicine – bloccate appunto dal governo israeliano – abbia creato delle condizioni intenzionalmente previste per provocare la morte della popolazione civile. La Corte ha anche detto che ci sono i presupposti per perseguire penalmente Netanyahu e Gallant per crimini contro l’umanità in quanto la popolazione civile a Gaza, a causa della condotta del governo israeliano, si è vista privare di diritti fondamentali come la vita e la salute. Non solo: tutto questo sarebbe avvenuto per motivi politici e nazionali, e di conseguenza i crimini contro la popolazione di Gaza sono identificabili come una persecuzione.
Insomma su un piano giuridico, per quanto riguarda la guerra di Israele a Gaza, ci sono dei casi aperti nelle sedi dei tribunali internazionali. E c’è bisogno di tempo perché questi facciano il loro corso.
I processi per genocidio nella storia
Nella storia ci sono stati diversi casi di processi per genocidio. Abbiamo parlato prima del processo di Norimberga: in quel caso il genocidio non era ancora stato classificato a livello giuridico, però chiaramente tutto il mondo conviene nel dire che l’Olocausto è stato un genocidio e che quindi quel processo è stato forse il primo del suo genere.
È negli anni Novanta però che per la prima volta la definizione di genocidio contenuta della Convenzione del ‘48 è stata usata a livello internazionale, quando è stato istituito il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Questo era un organo delle Nazioni Unite che aveva il compito preciso di perseguire i responsabili dei crimini commessi nell’ambito delle guerre jugoslave. Gli imputati non erano gli Stati, ma persone fisiche, molte delle quali furono appunto accusate di genocidio, oltre che per crimini di guerra e contro l’umanità. Ad esempio Radovan Karadžić, che era il presidente della repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina tra il ‘92 e il ‘96, così come Ratko Mladić, il comandate del suo esercito, furono condannati per genocidio per il massacro di Srebrenica, cioè l’uccisione di 8mila bognacchi, ovvero bosniaci musulmani. Su questo massacro è intervenuta anche la Corte internazionale di giustizia con una sentenza, stabilendo che sì, quel massacro fu genocidio, perché compiuto esattamente con l’intenzione di distruggere un preciso grippo etnico.
Sempre in quegli anni, precisamente nel 1994, è stato anche creato il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con l’obiettivo di esaminare i crimini commessi contro l’etnia tutsi. In circa 100 giorni, infatti, tra le 800 mila e il milione di persone furono massacrate sistematicamente: uccise a colpi d’arma da fuoco, con i machete, con bastoni chiodati, dalla maggioranza Hutu del Paese. A essere condannati per genocidio furono l'ex-primo ministro ruandese Jean Kambanda, e anche Jean-Paul Akayesu, che era sindaco di Taba, una cittadina dove si erano rifugiati circa 2mila tutsi, poi massacrati.
Questi sono i casi più tristemente noti, ma ce ne sono stati anche altri. Ad esempio quello della Cambogia negli anni Settanta, dove la dittatura comunista degli khmer rossi ha provocato un numero impreciso di vittime, che va dalle 800 mila agli oltre 3 milioni. Oppure, gli attacchi delle milizie indonesiane in Timor Est, dove furono uccise decine di migliaia di persone. Ma si è parlato di genocidio anche in relazione alla carestia negli anni 30 in Unione Sovietica, il risultato delle politiche di Stalin che causarono la morte di milioni di persone. Si è parlato di genocidio curdo, così come si è parlato di genocidio in Darfur: non sempre però alla concezione collettiva e al riconoscimento ampio da parte dell’opinione pubblica sono seguiti tribunali internazionali e processi che hanno effettivamente stabilito, anche su un piano giuridico, che quello è stato un genocidio.
Il dibattito attuale sul genocidio palestinese
Il dibattito attuale riguarda ovviamente quello che sta succedendo a Gaza. È stato molto significativo che ad esempio una persona come David Grossman, che è un famoso scrittore e intellettuale israeliano, abbia spiegato di essersi rifiutato per anni di usare questa parola rispetto alle azioni di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ma di essere poi giunto alla conclusione di sbagliarsi. E a quel punto ha detto che sì, Israele è uno stato genocida.
Non tutti sono d’accordo con lui. Ad esempio Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta quando era bambina al campo di concentramento di Auschwitz, è contraria all’utilizzo del termine genocidio per descrivere la realtà di Gaza. Secondo lei questa parola, in questo caso non è basata molto sull’analisi della situazione, ma piuttosto su sentimenti di vendetta contro gli ebrei. Un ribaltare sulle vittime del nazismo le colpe dell'Israele di oggi, sostiene.
Molti giuristi, studiosi ed esperti del conflitto isrealo-palestinese oggi si esprimono a favore dell’uso della parola genocidio. Ad esempio Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati. Ne ha parlato varie volte, spiegando che a Gaza è in corso la distruzione di un popolo in quanto tale. E dirlo è importante per smantellare la propaganda del governo israeliano, per cui ogni bomba e ogni massacro della popolazione civile sarebbe solamente una reazione al 7 ottobre. Oppure un danno collaterale al diritto di Israele di difendersi.
Albanese ha scritto anche un report su questo, che si chiama Anatomia di un Genocidio, e che spiega proprio come la leadership politica e militare israeliana abbia distorto i principi del diritto della guerra, scambiando la violenza genocida contro il popolo palestinese come una mera funzione protettiva del loro Stato.
Insomma, il punto per lei è che questo è chiaramente un genocidio, senza l’ombra di dubbio. E riconoscerlo è importantissimo. Il punto non è linguistico. Di quello non ce ne facciamo granché: anche se tutto il mondo dovesse convenire che sì, va usata quella parola per quei fatti, le cose cambierebbero in un lampo? No. Le persone continuerebbero a morire a Gaza, trucidate dalle bombe e dagli attacchi missilistici o consumate dalla fame. E per chi muore, non fa tanta differenza morire per un massacro o morire per una carneficina o morire per un genocidio.
Con questo chiaramente non vogliamo dire che le parole non siano importanti, sono fondamentali. Ma il punto qui è un altro: è giuridico e politico, con tutte le implicazioni e con tutti i risvolti che questi possono avere.
Genocidio è un concetto giuridico, rappresenta un crimine ben preciso riconosciuto dall’ordine internazionale. Riconoscere che sta avvenendo esattamente quello non comporta solo una generica presa di consapevolezza collettiva, comporta conseguenze concrete a livello, appunto, giuridico e poi politico. Quindi usare le parole giuste significa ancorarsi a questo sistema di regole e di diritto che ci siamo dati come comunità internazionale, per vivere in pace l’uno con l’altro.
Significa non cedere a chi invece vorrebbe far valere la legge del più forte, spazzando via l’architettura di diritto basata su valori come il rispetto dell’altro, la libertà, l’autodeterminazione.
Significa rigettare la propaganda disumanizzante contro un popolo, che fa sì che questo possa essere massacrato nell’apatia generale. Significa non restare in silenzio.
