No, neanche quest’anno i centri in Albania tanto decantati da Giorgia Meloni hanno funzionato

Giorgia Meloni l'ha detto e ridetto. "I centri in Albania fun-zio-ne-ran-no", è il mantra che va ripetendo ormai da parecchio tempo. Più di un anno fa, dal palco di Atreju la premier tuonava: "Dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano. Funzioneranno". Da allora lo dirà in molteplici altre occasioni: in Parlamento, ai comizi elettorali, nelle conferenze stampa e ai cronisti. È accaduto anche di recente, qualche settimana fa, nel suo intervento a chiusura dell'ultima edizione della kermesse di Fratelli d'Italia. Eppure, nonostante gli annunci di Meloni, neanche quest'anno i centri in Albania hanno fun-zio-na-to.
Con il nuovo Patto migrazione e asilo, che entrerà in vigore a giugno 2026, il governo conta di riuscire a sbloccare l'impasse e far partire una volta per tutte l'accordo con Tirana. Le cose però, potrebbero essere più complicate di quel che si crede.
Dalla firma dell'accordo con Tirana ai centri: la cronistoria di un flop
Innanzitutto vale la pena ripercorrere, anche solo brevemente, la cronistoria del protocollo Italia-Albania e l'evoluzione dei centri. La prima firma arriva più di due anni fa, a novembre 2023. Poi, a dicembre, il Consiglio dei ministri vara il disegno di legge che ratifica l'accordo, che verrà definitivamente approvato dal Parlamento a febbraio dell'anno successivo (2024).
L'obiettivo dell'intesa è chiaro, almeno sulla carta: contrastare i trafficanti e regolare i flussi migratori. Come? Esternalizzando le frontiere, ovvero gestendo e trasferendo i migranti soccorsi nel Mediterraneo nelle due strutture di Gjader e Shengjin, dove saranno sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Le stime del governo Meloni all'inizio, sono più che ottimistiche: centri operativi a partire da maggio 2024 e destinati ad ospitare almeno 35mila migranti l'anno. Il tutto alla modica cifra di più o meno 650 milioni di euro spalmati in cinque anni e interamente a carico dell'Italia.
Ben presto però, la faccenda si complica e iniziano ad emergere le prime storture. Dopo una serie di rinvii, a ottobre 2024 i centri vengono formalmente aperti. Peccato però, che da allora non siano mai partiti per davvero.
I dubbi dei giudici sui trattenimenti e il nodo dei Paesi sicuri
La storia è nota. I vari trasferimenti di gruppi di migranti soccorsi in mare in Albania hanno incontrato lo stop dei giudici che non hanno potuto convalidare i trattenimenti in quanto contrari alla normativa europea. Ovvero alla pronuncia della Corte di Giustizia europea (CGUE) secondo cui non esistono Paesi solo "parzialmente sicuri" e che ha impedito di considerare alcuni Paesi di origine dei migranti trasferiti nei centri come sicuri per il rimpatrio.
Da lì diversi tentativi di forzare la mano e aggirare le decisioni dei Tribunali. Prima con un decreto per rafforzare l'elenco della lista di Paesi stilata dal governo, poi sottraendo la competenza sui trattenimenti alle sezioni specializzate in materia migratoria dei Tribunali ordinari per darla alle Corti d'Appello. Infine, a marzo di quest'anno, con un altro decreto che trasforma le strutture albanesi in Centri per la permanenza e il rimpatrio dei migranti, identici a quelli già attivi sul suolo italiano, con l'intento di rilanciare il modello Albania.
Nel frattempo, tra fine 2024 e inizio 2025, alcune navi ripartono e in attesa del nuovo pronunciamento della CGUE, arriva anche la decisione della Cassazione che riconosce al governo il potere di definire la propria lista di Paesi sicuri ma ai giudici quello di verificarla, ed eventualmente disapplicarla se contraria alle norme.
A ottobre i centri ospitavano appena 25 migranti
Nei mesi successivi si rende ancora più evidente il fallimento dell'intero progetto. Varie delegazioni di parlamentari delle opposizioni visitano i centri e denunciano quanto emerso dalle loro ispezioni. A ottobre, solo due mesi fa, i centri ospitavano appena 25 migranti, in condizioni critiche. Molto del personale incaricato della gestione delle strutture è stato licenziato o richiamato in Italia.
A tutto questo si aggiungono le polemiche sui costi del pacchetto Albania. I dati forniti dal governo sono poco chiari mentre secondo i documenti raccolti da ActionAid – che ha presentato un esposto alla Corte dei Conti – si profila il rischio di un danno erariale. Alcuni appalti sarebbero stati assegnati senza gara e i fondi usati per realizzare i centri risulterebbero triplicati rispetto alle previsioni iniziali. Un'emorragia di denaro pubblico confluita per dei centri rimasti praticamente vuoti e inutilizzati.
Cosa cambia per i centri in Albania con le nuove regole Ue
Sì perché torniamo nel presente. Ad oggi i centri continuano a esser fermi ma la regole varate da Bruxelles sui rimpatri fanno ben sperare il governo. I nuovi regolamenti Ue, che per la prima volta definiscono una lista di Paesi sicuri (tra cui Egitto e Bangladesh), prevedono procedure di frontiera più rapide e riconoscono la possibilità di trattenere i migranti in attesa di rimpatrio nei "return hubs" in Paesi terzi, fanno dire a Meloni che i centri "fun-zio-ne-ran-no" (sì, di nuovo).
Ma non è detto che la stretta impressa dall'Unione europea sul fronte migratorio rappresenti necessariamente una svolta per il modello Albania. Resta innanzitutto, da capire se le procedure di frontiera potranno essere svolte in un territorio diverso da quello di uno Stato membro e – lo ricordiamo – l'Albania non fa parte dell'Ue.
Poi c'è la questione dei return hubs. Qui le regole europee sono chiare: i centri potranno ospitare solo persone destinatarie di un provvedimento di rimpatrio e non in attesa di procedure di frontiera (come invece prevedeva inizialmente l'accordo Roma-Tirana).
E ancora il nodo delle garanzie dei migranti – dal principio di non respingimento ai diritti fondamentali – che dovranno essere mantenute ma che la Corte d'appello di Roma dubita si riusciranno a rispettare in sedi extraterritoriali. Ai giudici peraltro, resterà comunque l'ultima parola. Potranno valutare la sicurezza di un Paese, anche quando ritenuto tale perché inserito in una lista, e sollevare i propri dubbi davanti alla Corte di giustizia europea.
Chissà se anche in tal caso Meloni darà la colpa a loro. Per ora, contrariamente da quel che raccontano da Palazzo Chigi, la partita è tutt'altro che chiusa.