Nessun via libera Ue al modello Albania sui migranti: cosa prevedono davvero le nuove regole sui rimpatri

L'ok arrivato dal Consiglio Ue Affari Interni alla stretta sui "rimpatri" dei migranti considerati irregolari è stato immediatamente rivendicato dal governo Meloni come una svolta politica. Le nuove regole, che puntano sulla carta a semplificare e accelerare le procedure e aprono alla possibilità di istituire return hubs in Paesi terzi, confluiranno nel Patto migrazione e asilo, la cui entrata in vigore è prevista per giugno 2026. Palazzo Chigi ha letto l'approvazione del regolamento come un via libera al cosiddetto "modello Albania". Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha parlato di "centri pronti a ripartire", sostenendo che le strutture possano finalmente diventare operative dopo mesi di stop, polemiche e contenziosi giudiziari: tra la narrazione del governo e il contenuto effettivo delle norme europee resta però una distanza significativa.
Nel frattempo, appena ieri, dal palco di Atreju Giorgia Meloni ha rilanciato lo scontro con la magistratura, attribuendo ai giudici la responsabilità del mancato avvio delle strutture; una lettura che ignora un dato centrale: i giudici hanno applicato la normativa vigente, nazionale ed europea, non convalidando trattenimenti ritenuti illegittimi. I costi del progetto intanto sono lievitati. Secondo i dati raccolti da ActionAid, per i centri in Albania sono infatti già stati stanziati oltre 73 milioni di euro, a fronte di strutture rimaste in gran parte inutilizzate.
È in questo contesto che si inserisce l'analisi di Gianfranco Schiavone, studioso di migrazioni ed esperto di diritto dell'asilo, componente del direttivo Asgi e presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà-Ufficio Rifugiati, che a Fanpage.it smonta punto per punto la narrazione del governo.
Dopo la stretta Ue sui rimpatri, cosa cambia – se cambia – per i CPR in Albania?
Per quanto riguarda il pacchetto asilo e le modifiche al regolamento procedure approvate dal Consiglio, non ci saranno sorprese. In senso negativo, purtroppo. C'è una maggioranza politica che porterà questi testi all'approvazione in Parlamento, ma lo farà attraverso un vero e proprio sovvertimento del patto politico europeo: è ormai chiaro che i popolari voteranno insieme all'estrema destra. È un fatto gravissimo, perché parliamo di proposte che fino a pochi mesi fa nessuno riteneva realistiche.
Sul fronte dei rimpatri, invece, il quadro è più incerto: cosa dobbiamo aspettarci davvero da questo negoziato europeo?
Qui il quadro è più aperto. Il Consiglio Ue ha avanzato numerose proposte di inasprimento rispetto al testo della Commissione, ma non darei per scontato che quello sia il testo finale. Non sappiamo cosa resterà davvero di quelle proposte, né quali saranno i tempi. A differenza del pacchetto asilo, non è affatto detto che il percorso sia insomma rapido o lineare.
Nei nuovi regolamenti europei esiste qualche elemento che possa legittimare il cosiddetto "modello Albania"?
No. Ed è questo il punto centrale. Non c'è alcuna proposta – né della Commissione né del Consiglio – che modifichi l'impianto originario su questo tema. L'articolo 17 prevede la possibilità per uno Stato membro di eseguire un'espulsione trasferendo fisicamente una persona in un Paese terzo, che si assume la responsabilità della sua condizione, incluso un eventuale rimpatrio verso il Paese d'origine. È un'ipotesi del tutto inedita, che pone problemi giuridici enormi e che io ritengo tendenzialmente illegale. Ma non ha nulla a che vedere con il progetto italiano in Albania.
Perché?
Perché il progetto italiano prevede la delocalizzazione extraterritoriale di una procedura amministrativa – e di una forma di detenzione – che resta sotto la giurisdizione italiana. Questa previsione non esiste nei regolamenti europei. Non esisteva nel testo della Commissione e non esiste nemmeno in quello approvato dal Consiglio. E parliamo di mesi di discussione: se qualcuno avesse voluto inserire quella ipotesi, lo avrebbe fatto.
Quindi quando il governo parla di via libera europeo…
Fa propaganda. E a questo punto non è nemmeno solo propaganda politica. Se vendi qualcosa che non esiste, si chiama truffa. Dire "ci sarà" quando quella previsione non c'è è semplicemente falso.
Perché, secondo lei, il "modello Albania" non è stato inserito?
Non certo per un improvviso rispetto dei diritti umani. Credo ci sia una maggiore consapevolezza giuridica: se l'Unione Europea prevedesse la gestione extraterritoriale di procedure di asilo o di detenzione, non ci sarebbero dubbi sul fatto che dovrebbero essere applicate integralmente le garanzie previste dal diritto europeo. Ma è realistico garantire quegli standard in Paesi che non fanno parte dell'Ue? La risposta è no.
Questo è anche il tema sollevato dalla Corte d'appello di Roma nel rinvio alla Corte di giustizia dell'Ue: perché quell'ordinanza è così rilevante?
Esatto. A fine ottobre la Corte d'appello di Roma ha presentato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Ue di enorme rilievo, di cui si è parlato pochissimo. La Corte dubita esplicitamente che sia possibile rispettare le garanzie previste dal diritto europeo in sedi extraterritoriali e chiede alla Corte di giustizia di pronunciarsi. E aggiunge che non vede, nemmeno nei nuovi regolamenti, elementi che possano cambiare questa valutazione.
Se la Corte di giustizia dovesse confermare quei dubbi, quali conseguenze avrebbe sul "modello Albania" e su eventuali futuri progetti simili?
Sarebbe un macigno enorme anche per eventuali sviluppi futuri. Perché anche se domani qualcuno scrivesse una norma sui centri extraterritoriali, resterebbe il problema dell'effettività delle garanzie. È un circolo vizioso.
Questa fase è un banco di prova per la tenuta democratica dell'Unione Europea?
Assolutamente sì. Credo che uno dei motivi per cui non si è riproposto il modello italiano sia proprio la consapevolezza che quella gestione non si può fare. La risposta che si sta tentando – la "cessione" delle persone a Paesi terzi – è persino peggiore. È una deriva estremista, storicamente drammatica. Ma questo è il grumo di contraddizioni dentro cui oggi l'Europa sta navigando.