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Minniti nega i respingimenti in Libia. Associazioni: “Faremo ricorso a Strasburgo”

In un convegno alla sede della Cgil l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha denunciato le decisioni del governo italiano in seguito alla chiusura della rotta libica: “Il nostro Paese persegue una politica sull’immigrazione in violazione dei diritti umani sanciti dalla Convenzione europea. A partire dai respingimenti in Libia”. Sul piano etico e su quello politico le responsabilità sono chiare, dopo la firma del memorandum Italia-Libia del 3 febbraio scorso. Ma sul piano giuridico è difficile accertare le responsabilità.
A cura di Annalisa Cangemi
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Il Consiglio d'Europa, tramite il Commissario europeo per i diritti umani, ha chiesto al ministro degli Interni Minniti con una lettera di giustificare gli accordi istituzionali stretti con il governo di Tripoli di Serraj e con i delle tribù del sud, i cosiddetti sindaci. Il commissario Nils Mui nieks ha chiesto garanzie sul rispetto dei diritti umani, con questa missiva inviata lo scorso 28 settembre, per capire "Quali salvaguardie l’Italia abbia predisposto per garantire che le persone intercettate o salvate dalle navi italiane nelle acque territoriali libiche non siano poi sottoposte a situazioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti umani", e cioè le torture e i maltrattamenti che avvengono all'interno dei centri di detenzione libici. La preoccupazione del Consiglio d'Europa è che possa esserci una violazione dell'articolo 3 dalla Convenzione europea dei diritti umani, secondo cui gli Stati membri non possono respingere i migranti in uno Stato in cui non vengono tutelati i loro diritti.

Il ministro Minniti è intervenuto personalmente, precisando che "Mai navi italiane, o che collaborano con la Guardia costiera italiana, hanno riportato in Libia i migranti tratti in salvo”, e sottolinea che "L'attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, all'equipaggiamento e al supporto logistico della Guardia costiera libica, in stretta collaborazione con gli organismi dell'Unione europea”. L'impegno dell'Italia servirebbe cioè a rafforzare l’autonomia delle capacità operative della Libia, “non ad attività di respingimento”.

Tre mesi dopo l'apporvazione del Codice di Condotta per le Ong, che, ricordiamo, non è uno strumento giuridico, e due mesi dopo l'auto-dichiarazione da parte della Libia di una zona Sar (Search and rescue, proclamata lo scorso 11 agosto) che va ben oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali, minacciando anche di sparare contro le Ong che hanno intenzione di violarla, Minniti giustifica la sua politica. Il ministro cerca di far passare il messaggio che la presenza di Unhcr e Oim in Libia è sinonimo di rispetto degli standard internazionali sull'accoglienza, e che la riduzione degli sbarchi di fatto limita le morti in mare, con un sostanziale calo degli incidenti e dei naufragi. E questo, aggiunge Minniti, poteva essere raggiunto solo con "l'interruzione delle partenze”.

I possibili scenari d'intervento alla Corte di Strasburgo

In un convegno organizzato oggi 16 ottobre alla sede della Cgil, l'Asgi insieme ad altre organizzazioni, tra cui Arci e Medici Senza Frontiere, si sono analizzate le prospettive per l'apertura di un contenzioso. Come si può agire per dimostrare che l'Italia è coinvolta attivamente, anche se indirettamente, nei respingimenti? Come possono essere denunciate le responsabilità e la complicità del governo italiano sulle torture nelle carceri? L'Asgi, insieme ad altre associazioni, vuole sottoporre la questione alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Nella prima ipotesi di contenzioso si potrebbe provare il coinvolgimento diretto di "agenti dello Stato italiano", insistendo sul supporto militare alla Guardia costiera libica. La seconda ipotesi è quella di porre l'accento sulle operazioni di salvataggio eseguite dalla Guardia costiera libica, coordinate però direttamente dall'MRCC di Roma (Centro di coordinamento del soccorso marittimo). Nel terzo scenario possibile si vogliono denunciare le operazioni esclusivamente libiche, senza la collaborazione di organismi italiani. Strada quest'ultima poco percorribile secondo gli avvocati dell'Asgi.

Nella costruzione di un possibile ricorso a Strasburgo il modo migliore è concentrare la denuncia su ciò che avviene in mare. Oltre all'impossibilità delle Ong di raccontare quanto accade, un problema sollevato dagli avvocati dell'Asgi è quello del ricorrente, che deve essere sempre un singolo. Ma le persone che vengono intercettate vengono poi trasferite nei centri di detenzione dove è difficile avere accesso. Tra le violazioni che possono essere imputate c'è appunto la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

Il principio di non respingimento

Secondo l'Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) l'Italia viola sistematicamente invece il principio di non respingimento (non-refoulment), sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, secondo cui a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà potrebbero essere compromesse. "Dal punto di vista etico e  politico è facile da dimostrare – dice l'avvocato Salvatore Fachile di Asgi – "Molto più complicato invece è dimostrare la questione dal punto di vista giuridico". Tanto più se si considera che in questo momento le Ong, dopo l'approvazione del Codice di condotta e la campagna di criminalizzazione del loro operato degli ultimi mesi, non possono più svolgere il ruolo di "watchdog", denunciando eventuali illeciti nel Mediterraneo. "Non possiamo più effettuare un pattugliamento proattivo – ha detto Tommaso Fabri di MSF – e dopo essere state accusate di fare da "taxi del mare" e di essere un "pull factor", cioè un fattore di traino per i migranti, ci hanno volutamente messi da parte". E questo, secondo l'Asgi, è accaduto per ottenere due obiettivi: disincentivare l'aiuto umanitario indipendente, riducendone l'efficacia e distogliere l'attenzione dalle criticità derivate da politiche di contenimento in Libia.

Nel 2017 l'Italia stanzia 200 milioni nella legge di Bilancio per progetti in Africa

Sappiamo con certezza che il Memorandum d'Intesa tra Italia e Libia, firmato il 3 febbraio scorso, è vincolante per entrambe le parti e ha portato, con la stipula di accordi economici, ad una riduzione degli sbarchi in Italia dell'81%. Questo è stato l'atto finale di un processo di esternalizzazione della gestione delle immigrazioni, un processo che ha visto lo stanziamento di fondi appositi per l'Africa, sia a livello europeo, sia a livello nazionale. Ma per la stipula di questo memorandum il grande assente è il parlamento italiano. Infatti, trattandosi di un accordo internazionale di natura politica, secondo l'articolo 80 della Costituzione, le Camere avrebbero dovuto ratificarlo: solo dopo il governo sarebbe stato legittimato ad agire.

Nel 2017 l'Italia ha stanziato 200 milioni di euro: 140 milioni sono serviti per finanziare il Fondo Fiduciario per l'Africa, per interventi in Niger, Libia, Tunisia e Ciad. Questi soldi sono stati usati in piccola parte per progetti di sviluppo: la maggior parte delle risorse vengono impiegate per i contrasti alla migrazione, attraverso "l'addestramento, l'equipaggiamento e il sostegno alla guardia costiera libica", finanziando direttamente l'apparato militare libico; oppure vengono investite direttamente nella logistica, anche sotto forma di aiuti economici ai centri di detenzione e per  la fornitura di motovedette utilizzate dai libici. Fondamentale poi per il governo italiano il dialogo con le milizie libiche: come hanno denunciato alcune inchieste giornalistiche l'Italia avrebbe pagato 5 milioni di euro al clan di Dabbashi, che fino a poco tempo fa comandava una rete di scafisti.

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