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Migranti, quanti soldi ha sprecato il governo Meloni per i centri in Albania

ActionAid presenta alla Corte dei conti un esposto che documenta costi fuori scala, appalti poco trasparenti e servizi mai attivati nei centri di detenzione in Albania. Secondo l’organizzazione, l’operazione avrebbe prodotto un ingente danno erariale senza alcun risultato concreto.
A cura di Francesca Moriero
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Centinaia di pagine di accessi civici, contratti, determine di spesa, missioni internazionali, passaggi tra ministeri e continue deroghe normative. È questa la base documentale che ActionAid porta alla Corte dei conti, accompagnata da un esposto di 60 pagine che contesta "uno sperpero sistemico di risorse pubbliche" legato all'operazione dei centri di detenzione in Albania. Quello che doveva essere un progetto sperimentale, giustificato dall'"urgenza di governare i flussi migratori", si è trasformato invece, secondo ActionAid, in un dispositivo amministrativo instabile, regolarmente respinto dai giudici nazionali ed europei e ogni volta reintrodotto attraverso eccezioni, modifiche normative e nuovi stanziamenti.

Il focus pubblicato dall' organizzazione non governativa internazionale e l'Università di Bari, Il costo dell'eccezione, descrive un modello che non ha mai raggiunto gli obiettivi dichiarati e che, al contrario, si distingue per l'entità della spesa, l'opacità degli affidamenti e l'inefficacia delle procedure.

L'esposto alla Corte dei conti e le segnalazioni all'ANAC

Il cuore della denuncia riguarda un possibile danno erariale: secondo ActionAid, infatti, le modalità con cui l'operazione Albania è stata finanziata configurano un uso distorto di fondi pubblici. L'organizzazione ha depositato un esposto alla Corte dei conti del Lazio, fornendo tutti i dati raccolti attraverso il progetto Trattenuti, e ha segnalato all'ANAC (l'Autorità nazionale anticorruzione) presunte irregolarità nell'appalto da 133 milioni per la gestione dei centri.

Tra le criticità individuate figurano la quasi totale assenza di verifiche sulla rilevanza internazionale dell'appalto, l'uso massiccio di affidamenti diretti e la mancata applicazione di procedure più aperte e trasparenti, nonostante l'impatto economico e politico dell'operazione.

La domanda che l'Organizzazione rivolge alla magistratura contabile è semplice e diretta: come è stato possibile assegnare decine di milioni di euro attraverso procedure che non rispettano i parametri minimi di trasparenza e concorrenza?

Il raddoppio immediato dei fondi: dai 39 milioni iniziali ai 65 milioni "d'urgenza"

Il progetto prende avvio con la legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, che destina 39,2 milioni di euro alla sua realizzazione. Ma appena dieci giorni dopo, con il “Decreto PNRR 2”, lo scenario cambia: la gestione dei centri viene sottratta al Viminale e al Ministero della Giustizia per passare alla Difesa. Una scelta politica e amministrativa che comporta un immediato aumento dello stanziamento, portandolo a 65 milioni di euro. Da qui in avanti lo schema si ripeterebbe: procedure in deroga, carattere d'urgenza, affidamenti diretti. Secondo i dati ottenuti dall'Organizzazione tramite accesso civico, da allora a marzo 2025 il Ministero della Difesa ha pubblicato bandi per 82 milioni di euro, firmato contratti per oltre 74 milioni ed erogato più di 61 milioni per l'allestimento delle strutture.

Una parte rilevantissima di questi contratti è stata assegnata senza gara. Ed è proprio questo, secondo ActionAid, uno degli aspetti più critici dell’intera vicenda.

"Soldi sottratti a salute, giustizia, welfare": le parole del team legale

Il team legale di ActionAid, guidato dall'avvocato Antonello Ciervo insieme a Giulia Crescini, Gennaro Santoro e Francesco Romeo, definisce la vicenda "una distorsione nell'uso delle risorse pubbliche". Secondo gli avvocati, infatti: "Le risorse destinate all'operazione Albania sono state sottratte alla salute, alla giustizia, al welfare e ai servizi essenziali. Ma anche ai fondi per la gestione delle emergenze".

A rendere il quadro ancora più grave ci sarebbe la natura stessa del progetto: un modello che la magistratura italiana e la Corte di giustizia dell'Unione europea hanno già giudicato in più occasioni come non conforme al diritto. Nonostante queste pronunce, il governo avrebbe continuato a finanziare l'iniziativa, cercando — secondo ActionAid — di adattare la normativa esistente per renderla compatibile con il protocollo siglato con l'Albania. In altre parole, anziché abbandonare un modello ritenuto illegittimo, si sarebbe tentato di modificarne il quadro giuridico a posteriori pur di portarlo avanti.

Centri semivuoti e costi tripli

A marzo 2025, nonostante i milioni già investiti, i centri in Albania erano ancora lontani dalla piena operatività: risultava attivo solo il 39% dei posti previsti. Ma il dato più significativo riguarderebbe i costi. A Gjader, mantenere un singolo posto per appena due mesi — in una struttura perlopiù vuota — costa circa 1.500 euro, la stessa cifra necessaria per garantire un anno intero di accoglienza nel Cpr di Modica, considerato il modello pilota italiano.

Numeri che, per ActionAid, evidenziano non solo l'inefficacia del trattenimento "offshore", ma anche la sua insostenibilità economica se confrontata con le soluzioni già disponibili sul territorio nazionale.

L'esperimento fallito in Sicilia: il precedente che anticipava ciò che sarebbe successo in Albania

Prima di esportare il modello in Albania, il governo aveva già sperimentato qualcosa di molto simile in Italia, in due luoghi: Modica e Porto Empedocle. L'idea era la stessa: trattenere per un breve periodo le persone arrivate via mare e considerate provenienti da Paesi ritenuti "sicuri", con l'obiettivo dichiarato di facilitarne il rimpatrio. Quell'esperienza, però, si è rivelata un campanello d'allarme chiarissimo. Nel 2023, i giudici non hanno convalidato nemmeno un trattenimento: zero convalide, zero rimpatri. Nel 2024, quando il modello è stato riproposto, le cose non sono andate molto meglio: su 166 persone passate da quei centri, solo cinque sono state effettivamente rimpatriate. Una percentuale intorno al 3%. In altre parole: il sistema non funzionava. Non funzionava legalmente, non funzionava nella pratica, non portava ai risultati promessi. Lo schema, però, è stato riproposto, tale e quale, in Albania, con investimenti molto più alti e una complessità logistica infinitamente maggiore, senza che esistesse alcuna prova che potesse davvero funzionare.

"Un progetto inumano, inefficace e giuridicamente inconsistente"

Così ActionAid riassume il giudizio su tutta l'operazione. Non si tratta solo di una valutazione politica o morale, ma di un'analisi tecnica che mette insieme aspetti economici, giuridici e di gestione. Lo dice in maniera molto esplicita Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni e tra gli autori del report: "L'ostinazione nel tenere in vita un progetto inumano, inefficace e giuridicamente inconsistente, attraverso continui stanziamenti, spostamenti di competenze e modifiche di regole, ha generato una perdita per l’erario che non può essere archiviata come mero errore tecnico". Secondo ActionAid, il problema non è solo quanto costa il progetto, ma a chi viene affidato. Le persone trattenute sono sotto responsabilità giuridica italiana, ma nella pratica gestite da società private e cooperative, in un contesto dove i controlli sono più difficili e la trasparenza più debole.
Questo, insomma, amplifica i rischi sia sul piano dei diritti che su quello della spesa pubblica.

La seconda fase: trasferire persone in Albania… per riportarle subito in Italia

La parte che appare ancor più paradossale dell'intera vicenda emerge con l'avvio della "fase due" del progetto, e cioè da marzo 2025. In questa fase non vengono più trasferite in Albania solo le persone appena sbarcate, ma anche quelle già trattenute nei Cpr italiani. Il risultato? Le persone vengono portate in Albania per svolgere alcune procedure amministrative… e poi riportate indietro. Non cambiano centro, non cambiano status, non avanzano nella procedura: rientrano semplicemente nel circuito detentivo italiano da cui erano partite. L'unico elemento che cambia, e che cresce a dismisura, è il costo. ActionAid calcola infatti che:

  • alla fine del 2024, un singolo posto nel centro di Gjader costi quasi il triplo rispetto allo stesso posto in un Cpr in Italia;
  • contemporaneamente, circa il 20% dei posti nei Cpr italiani rimane vuoto.

È come costruire un secondo sistema detentivo, all'estero, che non produce alcun beneficio operativo ma pesa enormemente sul bilancio pubblico.

Missioni, logistica, indennità: il buco nero dei costi accessori

Il report entra poi in un livello di dettaglio che mostra quanto la spesa non sia composta solo dagli allestimenti dei centri. La parte più pesante riguarderebbe infatti le spese collaterali.

Il ruolo della Difesa

Il Ministero della Difesa, oltre ai lavori di allestimento iniziale, avrebbe sostenuto una serie di costi aggiuntivi, tra cui:

  • 2,6 milioni solo per la nave Libra (manutenzione, equipaggiamenti, trasferimenti e poi cessione all'Albania);
  • spese elevate per missioni internazionali di militari e personale specializzato;
  • richieste di fondi supplementari per logistica e personale.

Il ruolo dell'Interno

Il Ministero dell'Interno, invece, avrebbe speso anche:

  • circa 630 mila euro per tecnologie di controllo, trasferimenti e altri servizi di supporto.

"Fino a 18 volte i costi sostenuti in Italia"

Tra tutte le voci di spesa analizzate, quella che riguarda il vitto e l'alloggio delle forze dell'ordine impegnate nel progetto Albania è forse la più rivelatrice dell'enorme squilibrio economico dell'intera operazione. Per capire la sproporzione, basta confrontare i costi giornalieri di un Cpr italiano con quelli del centro di Gjader in Albania.

Nel 2024, nel Cpr di Macomer (Nuoro), lo Stato spendeva 5.884,80 euro al giorno per garantire vitto e alloggio agli agenti che lavoravano nella struttura. Questa cifra è considerata normale negli standard italiani: copre i turni, le indennità e la presenza del personale necessario per la gestione del centro.

Quando la stessa operazione viene invece spostata a Gjader, in Albania, la spesa esplode: 105.616 euro al giorno tra ottobre e dicembre 2024. Significa che per mantenere lo stesso tipo di personale impegnato in compiti simili, lo Stato spende quasi 18 volte di più rispetto a Macomer. Il perché è semplice: lavorare in Albania comporta missioni internazionali, indennità aggiuntive, trasferte, vitto e alloggio a carico del Ministero, costi logistici molto più alti.

ActionAid usa anche un secondo termine di paragone per far capire ancora meglio la sproporzione: il Cpr di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, un centro che ha costi giornalieri ancora più bassi rispetto a Macomer. Se si confronta la cifra di Gjader (105.616 euro) con quella di Palazzo San Gervasio, la sproporzione diventa ancora più evidente: il costo in Albania risulta 28 volte più alto. L'effetto è quello che ActionAid definisce una "spesa totalmente fuori scala", difficile da giustificare anche considerando la logistica internazionale. Sono numeri che mostrano che il costo del personale in missione è stato moltiplicato senza un ritorno in termini di efficacia; lo Stato avrebbe insomma pagato decine di migliaia di euro ogni giorno solo per mantenere sul posto gli agenti, in una struttura che per lunghi periodi non ha trattenuto praticamente nessuno; l'operazione Albania sarebbe diventata più cara non per i migranti trattenuti, ma per il personale italiano impiegato in un progetto che non produce risultati. Per questo ActionAid parla di una gestione "economicamente incontrollata": perché le spese crescono in modo esponenziale senza alcun motivo strutturale, se non il fatto che la sede operativa è stata spostata all'estero.

Il carcere mai usato e gli uffici sanitari vuoti: fondi spesi, servizi assenti

Dopo i costi della logistica e delle missioni, il dossier mette in luce appunto l'altro paradosso dell'operazione Albania: la lunga catena di strutture finanziate ma mai realmente operative. Il Ministero della Giustizia, per esempio, scrive Actionaid, avrebbe firmato contratti per quasi due milioni di euro per adattare e avviare il penitenziario di Gjader, pensato come una delle colonne portanti del progetto. A maggio 2025, oltre un milione e duecentomila euro risultano già pagati. Nonostante l'investimento, il carcere è ancora incompleto: consegnato solo al 70%, non è mai stato utilizzato. È una struttura praticamente vuota, ma già costata quanto un intero anno di gestione di un Cpr italiano.

La situazione della sanità appare ancora più emblematica: il Ministero della Salute avrebbe infatti autorizzato spese per quasi cinque milioni di euro per garantire assistenza medica, screening, valutazioni delle vulnerabilità e controlli sanitari alle persone trattenute. Ma sul terreno, ciò che resta è quasi il nulla.

L'Usmaf Albania, e cioè l'ufficio sanitario di frontiera creato appositamente per seguire i casi in arrivo e coordinare ogni intervento sanitario, sarebbe vuoto da marzo 2025. Le stanze esistono, i fondi sono stati stanziati, ma nessun medico, nessun operatore sarebbe presente. Per valutare eventuali fragilità dei migranti, la famosa "commissione vulnerabilità" non si riunisce più sul posto: opera solo da remoto, e interviene soltanto quando arriva una documentazione medica esterna, il che significa che la presa in carico sanitaria reale non sembra esserci. Il risultato appare insomma tanto semplice quanto drammatico: la spesa pubblica corre, ma i servizi, quelli che dovrebbero tutelare i diritti minimi delle persone trattenute, sembrano non esistere.

Perché la Corte dei conti diventa decisiva

Ed è esattamente su questo punto che entrerebbe in scena la Corte dei conti. ActionAid non presenta un esposto solo per denunciare un modello politico o una scelta discutibile: chiede che si verifichi se questi soldi, milioni di denaro pubblico destinati a carceri mai usati, uffici sanitari inattivi, missioni di personale sproporzionate e appalti opachi, configurino un danno per l'erario, cioè una perdita concreta e ingiustificata per le casse dello Stato. La magistratura contabile ha un ruolo diverso rispetto a quello dei tribunali ordinari: non valuta se un'operazione è giusta o sbagliata dal punto di vista politico, ma se è stata condotta nel rispetto della legge, della trasparenza e dell'efficienza nella gestione delle risorse pubbliche.

Nel caso dell'operazione Albania, questo significa capire se i ministeri hanno speso senza adeguati controlli o giustificazioni; se l'uso di deroghe e procedure emergenziali sia stato abusato; se si siano creati costi enormi senza alcun ritorno in termini di servizi reali e se i fondi siano stati gestiti in modo tale da danneggiare il bilancio dello Stato. Il passaggio all'ANAC, invece, riguarda un altro fronte: capire cioè se l'appalto milionario alla società che gestisce le strutture in Albania rispetti o meno i principi di concorrenza e trasparenza richiesti dalle norme italiane ed europee. Di fatto, l'esposto vuole accendere due fari: uno sulla legalità e la correttezza della spesa, l'altro sulla regolarità delle procedure di affidamento.

Per questo la Corte dei conti diventa l'organo chiave: perché, se le accuse trovassero riscontro, non si parlerebbe solo di un progetto inefficace o discutibile, ma di una vera e propria responsabilità amministrativa, con possibili conseguenze per chi ha autorizzato, firmato, gestito e mantenuto in vita un sistema che, ad oggi, sembra avere prodotto solo moltissimi costi.

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