“Mi hanno venduto ai libici per meno di una capra”: le testimonianze dei migranti salvati da SOS Méditerranée

Intercettati in mare dopo essere partiti da Sfax, riportati con la forza in un Paese non sicuro – proprio la Tunisia – e infine caricati a forza su un pick-up verso un nuovo inferno. Portati al confine con la Libia, sono stati consegnati a uomini armati, picchiati, rinchiusi, ricattati. Non è un episodio isolato. Le testimonianze raccolte da SOS Méditerranée a bordo della nave Ocean Viking raccontano una prassi ricorrente, brutale, che coinvolgerebbe membri degli apparati statali tunisini nella consegna di persone migranti subsahariane a milizie libiche. "La polizia tunisina ci ha venduto a rapitori, a banditi libici", racconta Charly, un pittore del Camerun. "Il prezzo era di 150 dinari, circa 25 euro. Meno del costo di una capra". Un passaggio di corpi e violenze che si inserisce in una filiera di abusi: arresto in Tunisia, deportazione al confine, prigionia in Libia. Non si tratta più solo di respingimenti o abbandoni nel deserto, ma di un trasferimento forzato.
Diversi sopravvissuti parlano di veicoli della "polizia", di consegne dirette a "banditi" libici, di centri di detenzione non ufficiali. In questo scambio, i migranti diventano merce: uomini e donne ridotti a oggetti di scambio, strumenti per estorcere denaro alle famiglie, carburante di un'economia fondata sulla violenza.
Francesco Creazzo, portavoce di SOS Méditerranée, ha confermato a Fanpage.it la gravità di quanto emerge. "Le storie che ci raccontano coincidono con quanto altre fonti umanitarie e giornalistiche stanno documentando da diverso tempo", spiega. "Secondo le testimonianze che abbiamo raccolto a bordo e che sono la nostra unica fonte – chiarisce Creazzo – è possibile che pezzi di apparati statali tunisini, come già avviene in Libia, facciano parte di questo sistema". E tutto questo avviene all'interno di un sistema europeo di esternalizzazione delle frontiere che, osserva Creazzo, "produce sempre più sofferenza e sempre più illegalità".
Avete raccolto numerose testimonianze che confermano una vera e propria rete di tratta, con autorità tunisine coinvolte nella vendita di migranti alle milizie libiche. Possiamo parlare di una pratica sistematica?
Queste sono le prime testimonianze di questo tipo che abbiamo raccolto, anche perché la maggior parte dei soccorsi che effettuiamo avviene sulla rotta libica. Sono le prime testimonianze da noi raccolte in cui inizia a emergere con chiarezza questa dinamica, anche se è una realtà che conosciamo già da fonti giornalistiche e umanitarie. Emerge certo con forza un ulteriore passaggio nella tratta rispetto al passato: persone che partono dalla Tunisia e vengono vendute alle milizie libiche. Una cosa gravissima. Negli anni abbiamo raccolto infinite testimonianze di persone che affrontano abusi di questo tipo in Libia, ma questa dinamica specifica della "vendita" oltre confine è relativamente nuova.
Considerando che SOS Méditerranée opera principalmente nel contesto della rotta libica, come siete riusciti a entrare in contatto con queste vittime della tratta partite dalla Tunisia?
Le testimonianze che raccogliamo arrivano dalle persone che soccorriamo. Alcune delle persone soccorse, in questo caso, sono partite dalla Libia, dove sono arrivate proprio dopo essere state vendute.
Libia e Tunisia, Paesi con cui l'Italia e l'Europa continua a stringere accordi…
Sì, all'interno di una logica di esternalizzazione delle frontiere e di deterrenza dei viaggi via mare, spesso presentata come una strategia umanitaria da parte dei governi. Ma dietro questa narrazione si nasconde una realtà ben diversa: queste politiche, anziché ridurre la sofferenza, la amplificano. Finiscono per alimentare violenze, abusi e violazioni sistematiche dei diritti umani, come dimostrano le testimonianze raccolte sul campo.
Nel raccogliere queste testimonianze, avete incontrato resistenze o timori da parte delle persone, soprattutto per possibili ritorsioni da parte delle autorità tunisine o dei trafficanti?
No, chiaramente chi offre la sua testimonianze è perché vuole dire qualcosa. Ci sono molte persone che, dopo essere riuscite a fuggire dalla Libia, sentono proprio il bisogno di raccontare la loro storia: a volte per motivi personali, per il bisogno di elaborare un trauma, altre volte per senso di responsabilità verso chi è rimasto indietro. È una cosa che sentiamo spesso: "Lo racconto per i miei fratelli e sorelle che sono ancora là". Questa è una frase che il nostro equipaggio si sente ripetere molte volte, soprattutto da chi ha vissuto i lager libici.
Nella vostra esperienza di soccorso in mare, avete riscontrato un impatto diretto delle restrizioni italiane e europee, come il decreto Piantedosi, che ostacola il salvataggio e l'assistenza dei migranti?
Siamo in una fase di criminalizzazione del soccorso in mare che va avanti da otto anni, sotto governi di ogni colore. Ognuno ha messo in campo i propri strumenti. L'ultimo è appunto il decreto Piantedosi che, combinato alla prassi dei porti lontani, è un colpo durissimo, sia dal punto di vista logistico che umano: allunga i tempi e questo significa indirettamente maggior tasso di mortalità perché allontana i soccorritori dalle operazioni.
Queste politiche come hanno influenzato nel concreto il vostro operato?
La distanza dai porti di sbarco che ci vengono assegnati ha aumentato davvero enormemente i tempi di soccorso, mettendo a rischio la vita di chi è in mare.
Il governo italiano giustifica la politica dei porti lontani con l'idea di dissuadere i migranti e fermare gli arrivi. In nome della sicurezza e della protezione delle frontiere, vengono compromessi i diritti umani fondamentali, in particolare il diritto alla vita?
Sì. La ferita inflitta al diritto al soccorso è enorme: chi è in pericolo in mare ha bisogno di soccorso immediato. Le politiche restrittive aumentano il numero delle vittime, e questo per noi è inaccetabile: sulle migrazioni si possono avere idee diverse, ma il diritto-dovere di soccorrere non ha niente a che fare con la politica, è un dovere morale e legale.
Cosa dovrebbe fare concretamente l'Unione Europea per garantire una risposta più coerente e rispettosa dei diritti umani in materia di migrazione?
Noi da anni chiediamo la reintroduzione di una missione di soccorso europea guidata dagli Stati, un sistema di soccorso e accoglienza europeo, che permetta di rispondere prontamente a chi rischia la vita nel Mediterraneo. Le discussioni politiche e diplomatiche si fanno nelle sedi opportune, ma non si può accettare che da anni il diritto al soccorso venga progressivamente eroso e strumentalizzato. Non sono le ONG a politicizzare il diritto alla vita e al salvataggio in mare. Semmai è la politica a farlo, ostacolando l'azione umanitaria e mettendo a rischio vite umane.