L’Italia è in ritardo sul Pnrr, cosa può fare il governo Meloni per evitare il peggio

Che l'Italia sia in ritardo sul Pnrr è ormai certo: lo ha verificato alcune settimane fa la Corte dei Conti, nonostante pochi giorni dopo il governo Meloni nella sua relazione semestrale abbia soprattutto rivendicato i risultati già ottenuti. Il Pnrr, o Piano nazionale di ripresa e resilienza, è quell'insieme di riforme e lavori che l'Italia si è impegnata a fare con finanziamenti e prestiti dell'Unione europea, per un valore complessivo da 194 miliardi di euro: tutti hanno una scadenza diversa, ma l'ultima in assoluto è a giugno 2026. Quindi manca poco più di un anno alla chiusura obbligata dei lavori.
Cosa succederà in caso di ritardo? Il meccanismo è sempre lo stesso: arrivata la scadenza, l'Ue verifica se tutti gli obiettivi sono stati raggiunti e, in quel caso, eroga i soldi. In caso contrario, se li tiene. Quindi potremmo perdere decine di miliardi di euro. Finora l'Italia – con le numerose revisioni richieste dal governo Meloni – ha spostato più avanti nel tempo molte delle misure più complicate da concludere, così non ci sono state mancanze e il pagamento delle rate da parte dell'Unione europea è stato regolare. Ma a giugno 2026 non ci saranno più slittamenti possibili.
Ci sono però alcune soluzioni tecniche, dei modi per ‘aggirare' in parte i ritardi e evitare di vedersi togliere troppi soldi. Le ha presentate un'analisi pubblicata su lavoce.info, e sono principalmente tre: affidarsi a società partecipate e gestite dallo Stato, farsi pagare anche per i progetti che sono completati solo in parte (riducendo le perdite), e continuare i lavori anche mentre l'Ue fa le sue verifiche sul completamento.
A che punto è il Pnrr dell'Italia e il confronto con gli altri Paesi
Ci sono, come detto, ritardi evidenti nel Pnrr. L'ultimo aggiornamento del portale Openpolis è che, a fine 2024, l'Italia avesse speso meno di un terzo dei soldi previsti. Proprio questa è la parte più complicata: spendere i soldi in tempo, senza perdersi in ritardi o rallentamenti burocratici.
Per fare un confronto a livello europeo, dai dati della Commissione europea risulta che l'Italia abbia completato ufficialmente il 43% dei suoi obiettivi. La Germania è al 54%, la Francia al 73%. Di fronte a questo si potrebbe obiettare che questi due Paesi hanno preso molti meno soldi dall'iniziativa europea, quindi i loro piani sono meno impegnativi. Un Paese in una condizione simile alla nostra è la Spagna, che ha ottenuto 163 miliardi di euro, ed è ferma al 30% di completamento degli obiettivi.
Le difficoltà sono comuni a molti Paesi, e l'Italia è messa meglio di altri, però la sostanza resta: ci sono diversi lavori che rischiano di non concludersi in tempo. Nella sua ultima relazione il governo Meloni ha vantato che il 60% degli obiettivi sarebbe concluso o comunque in via di conclusione. Ma ciò che l'esecutivo non ha sottolineato è che i lavori rimanenti valgono i due terzi del soldi del Pnrr che l'Italia ha assegnati. Insomma, gli interventi più costosi e complicati sono ancora da chiudere. E il tempo stringe.
Chiedere più tempo o cambiare il Piano
La soluzione più immediata sarebbe quella di chiedere un rinvio delle scadenze del Pnrr, per poter sforare anche oltre la deadline di giugno 2026. Il governo Meloni in passato ha accennato a questa ipotesi, ma poi non se n'è fatto niente. E a meno di sviluppi futuri al momento non previsti, sembra che sia troppo tardi per concordare un prolungamento a livello europeo.
Un'altra alternativa è cambiare il Pnrr, come il governo ha già fatto in passato. Da una parte, tagliare adl Piano gli obiettivi più complicati da raggiungere e finanziarli con soldi nazionali (senza più scadenze fisse obbligate). Dall'altra, chiedere all'Ue di poter usare quegli stessi soldi del Pnrr per altre misure, più facili da completare in tempo. Il 21 marzo il governo Meloni ha chiesto una nuova revisione del Pnrr (la quinta) alla Commissione europea, ma non ha fatto sapere nulla su come intenda cambiarlo concretamente.
Le possibilità del governo: affidarsi agli enti pubblici
In attesa di saperne di più, ci sono le possibili ‘scappatoie' già accennate. La prima prevederebbe di utilizzare le società pubbliche e partecipate, come Invitalia o Simest, per esempio. Si tratta di enti che possono prendere in carico i soldi del Pnrr e poi firmare i contratti con le aziende che devono effettivamente occuparsi di completare i lavori. In sostanza, l'Italia potrebbe chiedere che l'obiettivo sia considerato raggiunto già quando i soldi vengono erogati, e non quando poi vengono usati e portano effettivi benefici.
Un esempio citato è quello degli interventi sostegno del settore agroalimentare. In questo caso l'obiettivo dell'Italia è far sì che entro il 30 giugno 2026 l'Ismea (un istituto economico pubblico) firmi con le aziende dei contratti per erogare tutti i soldi ricevuti in sovvenzioni. Se tutto fila liscio, queste sovvenzioni poi avranno degli effetti concreti solo molto dopo, ma intanto i contratti saranno firmati, l'obiettivo del Pnrr raggiunto, e i soldi europei arriveranno. Secondo l'analisi di lavoce.info, questo meccanismo già oggi riguarda 10,6 miliardi di euro di interventi, ma si potrebbe espandere.
Accettare delle perdite ‘ridotte' e usare tutto il tempo a disposizione
Una seconda soluzione può essere quella di accettare un taglio parziale dei soldi ricevuti. Ovvero, chiedere che gli obiettivi completati solo in parte ‘valgano' comunque, anche se solo per quella parte. Un esempio: gli asili nido. Sembra quasi certo che l'Italia non riuscirà a raggiungere l'impegno prefissato (e già abbassato rispetto alle previsioni iniziali) di circa 150mila nuovi posti entro giugno 2026. L'Ufficio parlamentare di bilancio ha previsto che potremmo mancare quel target di circa il 10-15%.
Normalmente questo significherebbe che, dato che l'impegno non è stato rispettato, la Commissione europea non pagherà i soldi legati all'obiettivo degli asili nido. Ma si potrebbe cercare una via di mezzo: se l'Italia ha costruito solo il 90% degli asili previsti, l'Ue paga solo il 90% dei soldi. Si potrebbe valutare caso per caso quanto effettivamente sia stato fatto, ma sicuramente l'effetto sarebbe benefico per l'Italia, perché invece di perdere tutti i fondi ne perderebbe solo una parte.
Infine c'è una possibilità più ‘pratica' e meno contabile: continuare i lavori per tutto il tempo possibile, anche dopo la scadenza di giugno 2026. Prima che la Commissione europea certifichi cosa è stato fatto e cosa no servirà del tempo: spesso le verifiche hanno richiesto diversi mesi di tempo, in passato. Questa non è una novità: anche per la settima rata richiesta a dicembre 2024 i controlli europei sono ancora in corso, e solo in questi mesi l'Italia sta raggiungendo alcuni degli obiettivi previsti. Insomma, si tratterebbe di sfruttare tutto il tempo possibile prima che arrivi il verdetto ufficiale.