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La Global Sumud Flotilla e la necessità di rilanciare la lotta per lo Stato palestinese

La Global Sumud Flotilla è il simbolo di una mobilitazione che va oltre gli aiuti umanitari: chiede la fine del genocidio, la creazione di uno Stato di Palestina e un nuovo percorso politico di pace.
A cura di Valerio Nicolosi
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“Che cosa posso fare?”

Per chi si occupa di Palestina questa è stata la domanda più ricevuta nell'ultimo anno e mezzo. In ogni occasione pubblica, in tantissimi commenti sui social o nei messaggi privati, è stata come un mantra ripetuto a più riprese.
La frustrazione e il senso di impotenza per molto tempo hanno invaso il lato pubblico e privato di tutti noi, soprattutto per l’assenza totale di risposte della politica istituzionale. Che, al di là di qualche spot propagandistico del governo sull’accoglienza di pochi bambini, non ha fatto nulla.

Le manifestazioni per Gaza che ogni sabato si davano appuntamento nelle città italiane sono state ignorate: nel racconto dominante tutto era ricondotto all’antisemitismo crescente, all’odio nei confronti di Israele e ai finti difensori dei diritti umani che in realtà erano sostenitori di Hamas. Quelle piazze, invece, chiedevano tutt’altro e non si riconoscevano in quel racconto.

La mobilitazione di massa

La Global Sumud Flotilla, che sta partendo in questi giorni da Barcellona, Genova e da altre decine di città, è un’azione nata proprio da quella frustrazione che molte persone hanno provato ed è la risposta che la società civile sta dando al posto dei governi condiscendenti con Israele e la sua politica genocidaria a Gaza. Mettere il proprio corpo a disposizione di una causa, anche nella consapevolezza che è quasi impossibile arrivare non solo a Gaza ma persino nelle vicinanze delle coste palestinesi, è un atto rivoluzionario che parte da lontano: la Flotilla ha una lunga storia fatta di un successo — quello che portò Vittorio Arrigoni a Gaza — ma anche di assalti dei corpi speciali dell’IDF, di attivisti uccisi o arrestati e di navi sequestrate. Questa volta il numero di imbarcazioni è alto, ma la risposta israeliana sarà simile e il ministro per la Sicurezza nazionale, Ben Gvir, lo ha già anticipato.

La Global Sumud Flotilla ha dalla sua una grande mobilitazione di massa che ha coinvolto personaggi dello spettacolo, intellettuali e figure istituzionali: la sindaca di Genova, Salis, con la fascia tricolore in testa al grande corteo che ha accompagnato le barche in partenza è qualcosa di impensabile fino a un anno fa, quando il racconto era ancora schiacciato su Hamas e i suoi crimini, quando in quasi tutti i talk tv la domanda “Ma tu condanni il 7 ottobre?” era la sola risposta a chi denunciava decenni di occupazione dei palestinesi.

Un altro tentativo di mobilitazione di massa della società civile c’è stato nei mesi scorsi, ma non è andato a buon fine e soprattutto non ha avuto la stessa copertura mediatica. La Global March To Gaza è stata in qualche modo un’incubatrice di quello che oggi è il movimento della Sumud Flotilla: gli attivisti sarebbero dovuti arrivare prima al Cairo in aereo e poi in bus fino ad al-Arish, città egiziana capoluogo del governatorato del Sinai e ultimo grande centro urbano prima che il deserto apra la strada verso Rafah. Da lì avrebbero dovuto proseguire a piedi fino al confine sud della Striscia per chiedere l’apertura e la possibilità di far entrare aiuti umanitari. Tutti sono stati bloccati al Cairo appena scesi dall’aereo: il regime egiziano non ha permesso agli attivisti di arrivare nemmeno ad al-Arish.

Oggi tutto sembra diverso: anche nel dibattito pubblico Gaza è sempre presente ed è riuscita a diventare un tema centrale persino al Festival di Venezia, tra i malumori di Carlo Verdone e dichiarazioni nette come quelle di Benedetta Porcaroli, Massimo Gallo, Michele Riondino e altri, oltre a importanti registi internazionali come Jim Jarmusch.

La necessità di una rivendicazione politica

Per chi scrive e racconta la Palestina da anni sembra quasi un miracolo. Sarebbe una vittoria politica, se non fossero morte decine di migliaia di persone in meno di due anni e se la prospettiva di uno Stato palestinese non fosse oggi più lontana che mai. Sulla scia emotiva di questa mobilitazione è il momento di costruire una rivendicazione politica che parli non solo di fermare il genocidio, ma che metta al centro la creazione di uno Stato di Palestina, ponendo le basi per un’azione diplomatica dal basso che possa garantire un futuro di pace al popolo palestinese. Nell’ultimo report della relatrice speciale dell’ONU per i territori occupati palestinesi, Francesca Albanese, si parla apertamente di come la politica e l’economia di occupazione di Israele siano state propedeutiche alla politica e all’economia genocidaria in corso. Un’incubatrice che per decenni ha posto le basi per quello che sta accadendo ora: sterminio o deportazione dei gazawi e annessione della Cisgiordania.

Una nuova Nakba con numeri ben più alti del 1947, ma che poteva essere già visibile anche il 6 ottobre 2023 o negli anni precedenti.

Per questo non basta chiedere la fine del genocidio, o massacro per chi non vuole usare questo termine, perché il ritorno allo status quo precedente al 7 ottobre porterebbe con sé il virus genocidario. Gaza era da quasi vent’anni un luogo sotto assedio totale: terrestre, marittimo e aereo. Nessuno usciva e quasi nessuno entrava. Io stesso, che la conoscevo bene e avevo dei progetti di formazione nelle università, ho ricevuto più volte una risposta negativa da Israele per il visto.

I tentativi di un percorso democratico dopo le elezioni del 2006 vinte da Hamas per poche decine di voti sono falliti tutti per la volontà israeliana, che giustificava l’assedio di Gaza con la presenza di Hamas e usava lo stesso movimento politico guidato da Ismail Haniyeh e Yaya Sinwar per indebolire e screditare l’ANP guidata da Abu Mazen e dal suo partito, profondamente corrotto, al-Fatah.

Le elezioni fallite in Palestina

L’ultimo tentativo di eleggere un nuovo parlamento e un nuovo presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese è fallito nella primavera del 2021, appena un anno e mezzo prima dell’operazione di Hamas del 7 ottobre. Non è un caso se tutti i sondaggi, anche quelli internazionali e indipendenti, davano Marwan Barghouti in testa a tutti i sondaggi. Con un passato da importante dirigente di Fatah e comandante del suo braccio armato, Tanẓīm, Barghouti è stato condannato a cinque ergastoli in un processo profondamente politico, criticato da molti osservatori internazionali che lo hanno seguito. Dalla sua cella in isolamento da oltre vent’anni e senza poter dire una parola, con la sua candidatura come indipendente laico e di sinistra, in rottura con Fatah, avrebbe raccolto oltre il 30% dei consensi, cifra alla quale non sarebbero arrivati nemmeno insieme Hamas e Fatah.

Alcune settimane fa il ministro colono di estrema destra Ben Gvir gli ha fatto visita nella sua cella, tutto a favore di telecamere, nel tentativo di provocarlo e screditarlo. Lui e gli altri politici dello Stato ebraico sanno che Barghouti è l’unica possibilità di un vero percorso democratico. Non a caso le elezioni del 2021 sono state rinviate per gli scontri a Gerusalemme dopo il divieto di preghiera nella Spianata delle Moschee imposto dalla polizia israeliana.

Andare oltre Netanyahu

Rompere l’assedio oggi è importante, ma lo è ancora di più spostare l’attenzione e alzare l’asticella delle richieste: il problema non è Netanyahu, ma quasi tutto l’arco parlamentare israeliano, che con circa l’80% dei voti ha approvato una mozione per l’annessione della Cisgiordania. Una politica che ha reso possibile l’alternarsi dei governi per decenni, ma con lo stesso risultato: portare avanti un’occupazione illegale, far crescere il movimento dei coloni e spostare sempre più su posizioni suprematiste il Paese, portandolo fino al genocidio dei palestinesi in corso.

Quindi buon vento alla Global Sumud Flotilla, che porti non solo aiuti umanitari, ma anche il grido di solidarietà a tutto il popolo palestinese.

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